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FRANCO CERILLI

«A tavola eravamo forti... e in campo tutti spensierati»

Franco Cerilli
Franco Cerilli
Franco Cerilli
Franco Cerilli

Ha sempre vissuto per l'assist, che lo faceva godere più di un gol. Franco di nome e franco nel modo d'essere, Cerilli, il mitico 7 del Real Vicenza, non si stanca di ripeterlo. «Fossi stato più egoista, con dieci gol all'anno avrei avuto probabilmente una carriera diversa e magari sarei arrivato a vestire la maglia della Nazionale. Ma a me piaceva passare la palla e mandare in gol i compagni, godevo come un matto quando segnavano». Chioggiotto, di borgo S. Giovanni, Cerilli racconta il suo Real. «Quella squadra fu fatta con i rottami, gli scarti di varie formazioni, questo si disse all'epoca - spiega -. Ci siamo amalgamati subito. L'allenatore ha trovato i ruoli giusti per ognuno di noi e da lì è partita la favola Real. Siamo ancora amici dopo 40 anni, ma diciamola una cosa: i risultati non si fanno con l'amicizia. Eravamo forti a tavola, ma di più in campo, giocavamo a memoria e forse solo ora realizzo che cosa abbiamo dato alla gente, se dopo così tanto tempo siamo ricordati come una squadra mitica. All'epoca scendevamo in campo completamente spensierati».

LO STILE DI FRANCO Inconfondibile lo stile di Cerilli, calzettoni alla caviglia, sprezzante del pericolo. «Ne ho prese di botte, ma il mio idolo era Sivori e sin dai tempi dell'oratorio li ho tenuti così, abbassati, tanto che all'esordio in serie C col Sottomarina a Udine, contro l'Udinese (avevo 16 anni), quando mi vestii il presidente mi disse di tirare su i calzettoni. Li tirai su ma quando iniziò la gara me li ritirai giù alla caviglia. Presi una tirata d'orecchio, ma feci gol e quindi andò tutto nel dimenticatoio». A Vicenza Cerilli ha vissuto senz'altro uno dei momenti più belli della carriera. «Un venerdì sera dopo allenamento andammo a Sant'Anna Morosina al ristorante Da Giovanni, che era il cugino di Ernesto Galli. Il nostro portiere era molto scaramantico e per tutti gli anni il venerdì dopo allenamento dovevamo andare a mangiare là se volevamo vincere. Si cenava e poi il sabato mattina si andava regolarmente ad allenamento, e buttavamo giù quel chiletto. All'epoca - racconta l'ala destra del Real -, era un gusto giocare al Menti, era sempre pieno. I tifosi sono ancora nostri amici, venivano a cena con noi, eravamo molto legati. Vicenza è stata speciale e sicuramente il secondo posto in serie A dietro alla Juventus è il ricordo sportivo più emozionante». La carriera di Cerilli, che prima di approdare al Vicenza aveva esordito in serie A con l'Inter («Un'esperienza preziosa, durata due anni, in una società prestigiosa. Ma andò così così. Poi l'Inter mi propose il prestito al Vicenza, vicino a casa quindi. E dopo un po' capii che avevo compiuto la scelta giusta...»), non fu tutta in discesa. Anzi. L'ex biancorosso ha dovuto fare fronte alla scomoda vicenda del Totonero-bis. A causa di alcune intercettazioni telefoniche fu squalificato per cinque anni.

IL MONDO ADDOSSO «Mi è cascato il mondo addosso - racconta -, ma sono sempre andato in giro a testa alta. Che uno mi creda o no, quando sono tornato a Vicenza ho vinto due campionati. Non ho nè venduto nè comprato partite». Cerilli ha avuto un idolo, Sivori, ma non ha avuto maestri. «Sono cresciuto sui campetti dell'oratorio, quel che ho espresso da giocatore è stata, in fondo, farina del mio sacco. Certo, Fabbri sul campo mi ha insegnato la sovrapposizione, mica poco. Gibì era incredibile e vedeva il calcio come me. Voleva che si giocasse il pallone, senza buttarlo via. Con lui non c'erano ruoli precisi, nel nostro piccolo eravamo gli olandesi italiani. Ha inventato Rossi... Ha fatto bene in altri posti, non solo a Vicenza. L'hanno portato in trionfo anche quando è retrocesso. Era prima di tutto uno psicologo, cosa fondamentale. A me ha insegnato che se anche avevo il 7 e partivo da destra, potevo anche girare, farmi trovare altrove, perché la mia fantasia non andava soffocata». Dopo aver smesso di giocare, Cerilli è stato protagonista come allenatore sulle panchine delle giovanili e dei dilettanti. «Ora però sono fermo, mi godo la mia Chioggia e penso con malinconia ai pezzi del Real Vicenza che se ne sono andati e ci hanno fatto un brutto scherzo. Provo a farvi capire chi eravamo. Dopo il '78, invitarono me, Rossi e Salvi ad un torneo di tennis a Sanremo. Io non sapevo tenere in mano la racchetta, Salvi era molto bravo e anche Paolo se la cavava bene. Bisognava presentarsi a cena in giacca e cravatta, ma noi proprio non ci sentivamo vip e ci facemmo portare sempre la cena in camera». Un sogno nel cassetto? «Più che un sogno, mi piacerebbe rendermi utile in qualche squadra in cui ho giocato e al Vicenza mi vedrei bene come consulente tecnico, secondo me la squadra ha bisogno di una figura che il campo lo conosce e l'ha visto tante volte».

Marta Benedetti