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MARCO TAISCH PROFESSORE AL POLITECNICO DI MILANO E PRESIDENTE DI "MADE"

«Il digitale oggi non è più un'opzione, è una necessità. Un'impresa che non si digitalizza è destinata a morire»

In piena pandemia, a maggio dell’anno scorso, l’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano aveva fatto un’indagine su un congruo campione di aziende ed era emerso un senso diffuso di disorientamento e di spavento, tant’è che un’azienda su quattro (il 26%, per l’esattezza) aveva detto che nell’anno avrebbe ridotto gli investimenti in digitalizzazione di più del 50%. Tempo pochi mesi e le stesse imprese, intervistate nuovamente a settembre-ottobre, avevano in buona parte cambiato idea e avevano segnalato all’Osservatorio l’intenzione di aumentare i propri piani di investimento rispetto a quanto deciso prima della pandemia. Come dire, insomma, che l’improvvisa emergenza dettata dal virus e lo stravolgimento imposto nelle organizzazioni del lavoro e nelle catene produttive ha fatto capire a tanti quanto sia fondamentale, oggi, investire nelle nuove tecnologie digitali. Marco Taisch, professore ordinario di Advanced and Sustainable Manufacturing e Operations Management al Politecnico di Milano e presidente di MADE – Competence Center I4.0, è considerato il massimo esperto di Industria4.0 del paese.

Professore, possiamo dire dunque che nell’ultimo anno, complice la pandemia, è aumentata a 360 gradi la consapevolezza dell’importanza di investire in digitalizzazione?

Sì. Ci si è resi conto che a rimanere aperte durante il lockdown e a continuare a lavorare con i clienti internazionali erano state quelle imprese che avevano sviluppato un sufficiente grado di digitalizzazione e che potevano mantenere gli impianti aperti controllandoli in remoto, facendo manutenzione e collaudi in remoto. Questo ha fatto sì che crescesse la consapevolezza sull’importanza della digitalizzazione, e poi si è “sparsa la voce”, si è avuta un’accelerazione della consapevolezza e delle azioni che era importante compiere.

Una presa di coscienza diffusa, insomma. Come ha notato qualche osservatore già a fine estate, è come se in 5 mesi fossero passati 5 anni.

Assolutamente sì. Non considerando per un momento la tragedia umana che abbiamo vissuto, si può dire che il Covid per l’Italia è stato un grandissimo acceleratore della digitalizzazione delle imprese. Altrimenti non si sarebbe prodotto in maniera così sostenuta come stiamo vedendo in questi mesi. Per inerzia, pigrizia, ignoranza, la velocità di diffusione di queste tecnologie sarebbe stata più lenta, aumentando il gap che l’Italia ha sul fronte della produttività rispetto a paesi come la Germania o la Francia. Quindi, sotto questo profilo, la pandemia ha dato uno scossone rilevante. Al quale si è aggiunto un rafforzamento del piano Transizione 4.0.

Ossia il nuovo Piano che di fatto, al di là del nome, è in continuità con il Piano Industria 4.0 dell’ex ministro Calenda in cui lei aveva avuto un ruolo di primo piano. Le cose, dal punto di vista degli incentivi agli investimenti, sono dunque andate avanti...

Sì, ma anche le altre misure lo hanno fatto, la Sabatini, gli altri crediti d’imposta legati al tema. Il piano Calenda di fatto è rimasto confermato dai governi successivi, solo che non se ne parlava. C’è stato un buco mediatico, non legislativo e normativo. È mancata a un certo punto la spinta comunicativa del governo. Con il paradosso che gli incentivi c’erano e le imprese pensavano erroneamente che non ci fossero più. Basti ricordare che i dati dell’Ocse mettono l’Italia al secondo posto dopo l’Islanda, tra tutti i paesi che dell’Ocse fanno parte, nella creazione del miglior sistema di incentivi fiscali per la ricerca e l’innovazione. Dobbiamo anche parlare delle cose positive che abbiamo.

Oggi che realtà c’è? Si è tornati a spingere?

Patuanelli come ministro dello sviluppo economico è tornato a parlarne in maniera più decisa di quanto avesse fatto Di Maio, che anzi aveva fatto disinformazione dicendo che il Piano non era pensato per le piccole e medie imprese, quando invece non c’era alcun limite verso il basso. Con Patuanelli è tornato un certo interesse, poi è arrivato il Covid e ha risvegliato l’attenzione su questi temi. Il PNRR (il piano nazionale di investimenti che l’Italia deve presentare all’Unione Europea nell’ambito del Next Generation EU, ndr) ha messo la digitalizzazione al centro, ed è molto positivo il fatto che l’attuale governo abbia creato due ministeri, alla transizione digitale ed ecologica, che vanno in maniera coordinata a lavorare su quelli che sono i due grandi temi della fabbrica e del manifatturiero.

Digitale e sostenibilità vanno in effetti sempre più a braccetto, come lo stesso governo ha certificato attraverso i due ministeri ad hoc. Ma quali sono le intersezioni tra questi due temi?

Abbiamo vissuto una prima fase della sostenibilità industriale lavorando, giustamente, sulle tecnologie che consumano energia. Il tema, per intendersi, era: prendo la lampadina a incandescenza e la sostituisco con una a basso consumo; oppure faccio interventi strutturali sugli impianti che consumano energia. Una volta fatto questo, dove vado a cercare ulteriore riduzione di consumo energetico, di CO2? Devo cercarla nella modalità di conduzione degli impianti. E il digitale può aiutare a condurre impianti in maniera tale da risparmiare ulteriormente energia. I sensori che modulano la temperatura in un ambiente sono un esempio di digitale finalizzato non alla ottimizzazione delle prestazioni manifatturiere, ma a una riduzione dei consumi energetici. Quindi il digitale abilita un’ulteriore passo verso la sostenibilità.

Un campo dove si aprono scenari di miglioramento continuo, visto che il digitale non può che portare a miglioramenti progressivi.

Certo, su due fronti, quello dei prodotti e quello dei processi. Il consumatore diventa più attento alla sostenibilità, quindi io gliela devo dare, gli devo comunicare che i prodotti che vendo sono sostenibili. I prodotti stessi sono più intelligenti, perché il consumatore chiede che siano più funzionali e sostenibili. E poi ci sono i processi: il consumatore non chiederà più soltanto un prodotto verde, ma un prodotto verde fatto in una fabbrica verde. Ecco quindi che anche la fabbrica deve diventare sostenibile. In definitiva: fabbriche intelligenti e verdi e prodotti intelligenti, connessi e verdi.

C’è un consiglio che, in tema digitale, può dare alle imprese vicentine, che sono perlopiù di piccole e medie dimensioni?

Il primo è di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Non far finta che il digitale sia una cosa che non le riguarda, sarebbe un errore. Se il digitale una volta era un’opzione e un fattore in grado di aumentare la competitività, oggi è un prerequisito essenziale. Dunque se l’impresa non si digitalizza, muore. Il secondo consiglio muove dalla considerazione che sempre più servono competenze adeguate, perché il digitale è un investimento in persone.

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Stefano Tomasoni