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«Nelle aziende è arrivato il momento di fare spazio alla crescita verticale»

Nelle imprese è arrivato il momento della “crescita verticale”. Ossia di far crescere e mettere in posizioni di responsabilità i giovani talenti che se lo meritano, senza dover aspettare la “logica dell’anzianità” a tutti i costi. A dirlo è Paolo Gubitta, professore ordinario di organizzazione aziendale e imprenditorialità all’Università di Padova, direttore scientifico Area imprenditorialità di Cuoa Business School e componente del Comitato tecnico strategico per l’economia regionale creato da Veneto Sviluppo.

Professor Gubitta, com’è cambiato il mondo del lavoro negli ultimi anni, anche alla luce di tutto ciò che è successo con la pandemia?
Il cambiamento generale è che oggi in tutti i lavori è sempre più richiesto di avere una specializzazione verticale e contemporaneamente anche competenze di natura relazionale, digitale, e qualche volta anche di natura disciplinare. Ad esempio, chi si occupa di accounting non può ignorare le dinamiche ambientali. E in amministrazione, finanza e controllo non basta più il super-esperto di accounting & finance, perché oggi la rendicontazione non finanziaria impone di conoscere anche le tematiche legate all’Esg, quindi alla governance ambientale, sociale e aziendale. Se questo dunque è il quadro complessivo che vale un po’ per tutti, al suo interno c’è da distinguere tra il lavoro operativo e quello manageriale. L’operaio o l’impiegato, per effetto della pandemia, ha dovuto imparare a organizzarsi meglio il tempo, a lavorare in azienda ma anche da casa, a dialogare con altri a distanza, tutte cose che non sono scontate.

E il lavoro manageriale, dal canto suo, che cambiamenti ha avuto?
Due aspetti sono cambiati, in questo ambito. Il primo è che, con la pandemia, c’è chi si è trovato a fare anche il leader e il coordinatore di persone a distanza, non tutti sono capaci di farlo. Il secondo aspetto è che sempre più i manager intermedi si trovano a dover interagire con persone giovani – dall’operaio al trentenne laureato – che hanno una forma mentis diversa, che sono nativi digitali e che non ne possono più, giustamente, di dover aspettare e dover fare la gavetta perché è giusto farla. Può capitare così di trovare la persona di cinquanta o più anni che si trova con un ventitreenne nerd bravissimo nel suo specifico campo e che non capisce perché dev’essere l’ultimo nella scala gerarchica e perché non potrà ricevere delle responsabilità fino a quando non raggiungerà i trent’anni. Questa diversa concezione di come si fa carriera all’interno delle imprese è un aspetto importante.

Come dire che dal “digital divide” si passa a quello che potremmo chiamare “generational divide”?
Sì, è così. Ci sono persone che hanno delle skill particolarmente sviluppate in ambito digital, ambientale o tecnico e che non sono disponibili a fare i collaboratori dei collaboratori dei collaboratori: se sanno di meritare una crescita verticale, la pretendono. Una ricerca ha dimostrato come le imprese che non riescono a gestire questi casi, cioè non sanno valutare (ovviamente con cognizione di causa) l’opportunità di mettere delle persone giovani e preparate in posizioni di responsabilità fin da subito, perdono performance.

Questa, però, oggettivamente non è una questione semplice, chiama in causa un discreto salto culturale a livello manageriale...
E anche a livello di proprietà. Si tratta di saper fare i leader a distanza, fidarsi dei propri collaboratori, ma anche – se hai persone particolarmente skillate che lavorano con te – di saper gestire percorsi di carriera verticali o traversali e nel contempo anche il collaboratore di 55 anni che ha un capo che ne ha 27, magari non è neanche laureato però è bravissimo, ha capacità relazionali e riesce a gestire anche il tema dell’inclusione. È questa la criticità.

Il tema della crescita verticale, tra l’altro, si inserisce in una dinamica del lavoro che in questi anni ha visto allungare l’età lavorativa, per cui la pensione arriva sempre più tardi e il divario generazionale in azienda si nota ancora di più.
Vero. E c’è un ulteriore elemento: le competenze digital, environment e di inclusione sociale sono coeve con i giovani che hanno oggi venti o trent’anni, ossia con le persone che riescono a renderti l’ambiente inclusivo, sanno gestire la digitalizzazione e quant’altro. Se le perdi - perché se ne vanno per non restare dieci anni in un’azienda dove conta l’anzianità a prescindere – ti si crea un problema. .

Quindi è vero che il rapporto tra i giovani e il lavoro è cambiato al punto che oggi sono sempre più i giovani talenti a scegliere l’azienda dove andare a lavorare e non viceversa?
In maniera differenziata, però. È vero in particolare per le persone che hanno studiato e hanno competenze che pesano sul mercato e possono mettere a confronto le opportunità di impiego, sia in termini retributivi sia con gli altri elementi citati. È ovvio che chi se lo può permettere non va a lavorare in un’azienda brutta, grezza, dove se parli in inglese ti dicono di non tirartela, o se vai al lavoro con la gonna o le unghie truccate fai la fine di Cloe Bianco. Poi ci sono le persone meno skillate, loro vanno dal migliore offerente. Che può essere, ad esempio, quello che mette a disposizione del buon welfare. O che, se sei musulmano, è elastico rispetto al mese del ramadan.

Insomma, se un’azienda si rende attrattiva trova sia le competenze alte che la manodopera meno qualificata ma ugualmente importante.
Sì, del resto pensiamo a com’era la nostra società di una volta: tanti anni fa c’erano i metalmezzadri e quando dovevano andare a vendemmiare o a “far su” il maiale il datore di lavoro gli dava le ferie. Oggi con alcuni segmenti del mercato del lavoro questa cosa dovrebbe essere fatta in maniera manageriale. Aziende che lo fanno ce ne sono, beninteso. Posso fare l’esempio di un’azienda che fattura 9 milioni di euro, quindi tutt’altro che un colosso, che ha fatto un piano di welfare riconoscendo la licenza matrimoniale anche alle unioni civili e il premio nascite anche a chi adotta e a chi prende un bambino in affido, e dà delle premialità per chi fa tanti figli.

Ma se all’interno delle aziende più strutturate il campo d’azione del responsabile delle risorse umane è ben delineato, nelle piccole e medie imprese questo è un ruolo che riesce a seguire l’evoluzione dei cambiamenti in atto?
Ovviamente nel sistema delle piccole e medie imprese la propensione e la capacità di gestire il capitale umano non è ancora così diffusa, ma l’obiettivo non dovrebbe essere quello di portare un responsabile delle risorse umane all’interno di un’azienda con venti persone, sarebbe velleitario. Nelle Pmi queste attenzioni dovrebbero diventare competenze diffuse all’interno dell’azienda, delle sensibilità che più persone dovrebbero avere: la proprietà ovviamente, ma anche i capireparto, i capiturno.

Come si fa a ottenere questa consapevolezza e questo risultato?
Con un’attività che anche i corpi intermedi, penso alle associazioni di categoria, dovrebbero cominciare a fare. Ad esempio con dei percorsi formativi o attività divulgative che permettano di capire che saper valutare le prestazioni è importante.