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IL LAVORO CHE CAMBIA

«Metà delle aziende vuole assumere»

«I maggiori ostacoli alla crescita dell'occupazione per le aziende oggi sono il cuneo fiscale e l'eccessiva burocratizzazione delle normative»
La formazione è importante Sette aziende su dieci sono soddisfatte dell'offerta formativa del territorio
La formazione è importante Sette aziende su dieci sono soddisfatte dell'offerta formativa del territorio
La formazione è importante Sette aziende su dieci sono soddisfatte dell'offerta formativa del territorio
La formazione è importante Sette aziende su dieci sono soddisfatte dell'offerta formativa del territorio

Uno dei cuori pulsanti del sistema manifatturiero italiano, un tessuto industriale fatto di un mondo di piccole e medie imprese ma anche di tanti grandi eccellenze produttive e di marchi internazionali. Sono le province di Verona, Vicenza e Brescia. Un territorio che è espressione della migliore produzione manifatturiera italiana, ma che ha tanti punti di forza anche nel turismo di qualità e nei servizi. È dentro quest’area ricca di primati che si è concentrata l’indagine sul “lavoro che cambia” realizzato su un campione di 1.500 imprenditori e addetti da LAN-Local Area Network, la struttura di cui è direttore scientifico Luca Romano.

Romano, con la vostra ricerca si è aperto l’evento “Athesis New Job” a Verona. Quali sono gli aspetti più importanti che sono emersi?
Prima di entrare nel merito, vorrei elogiare il Gruppo Athesis, Matteo Montan e Luca Ancetti per aver voluto utilizzare una ricerca per introdurre l’evento, assegnando un ruolo importante alla conoscenza. Come sta cambiando il lavoro e il rapporto delle persone con il lavoro non lo sa con esattezza nessuno. Bisogna ricercare molto per cominciare a capire qualcosa.

Andiamo a vedere quali sono state le “scoperte” dell’indagine che, almeno in parte, hanno contraddetto luoghi comuni.
Comincerei dallo smart working. Dopo l’emergenza le imprese sono tornate prevalentemente tutte in presenza, solo un 14% ha adottato formule ibride. La percentuale media del ritorno in presenza nelle tre province arriva all’83%. Diventerà realtà per aziende di servizi di medie e grandi dimensioni, la cui organizzazione del lavoro lo permette.

Uno dei fenomeni che stanno caratterizzando il mercato del lavoro è quello che delle “grandi dimissioni”, la tendenza da parte di un buon numero di persone di licenziarsi volontariamente, da posizioni di lavoro sicure e a tempo indeterminato, per fare altre scelte professionali e spesso anche di vita. Cosa avete registrato, sotto questo aspetto?
Su questo fenomeno, che ha effettivamente caratterizzato la fase più recente del mercato del lavoro, abbiamo raccolto non l’opinione dei diretti interessati, ma dei datori di lavoro, delle imprese. E abbiamo verificato una tendenza interessante, finora poco o per niente analizzata, ovvero il fatto che sono in atto due movimenti opposti: uno di dimissioni dalle imprese grandi verso le piccole con motivazioni legate alla qualità della vita, ossia la ricerca di maggior tempo libero e meno stress, e un altro dalle imprese piccole alle grandi con motivazioni più prettamente economiche, legate quindi alla ricerca di una migliore remunerazione e a maggiori possibilità di carriera.

Quindi non avete rilevato una tendenza univoca?
Assolutamente no. Già le statistiche si erano incaricate di chiarire che il tema delle “grandi dimissioni” da noi non ha la stessa configurazione che ha negli Stati Uniti, ossia di abbandono del lavoro: qui si tende a licenziarsi per reimpiegarsi in un posto di lavoro giudicato migliore. Ma l’aggettivo “migliore” assume significati diversi a seconda della persona: c’è chi aspira a ottenere più soldi, chi ad avvicinarsi a casa, chi ad avere il sabato e la domenica liberi, chi a fare un lavoro più gratificante o semplicemente a esercitare il proprio potere contrattuale in tempi di alta domanda e di offerta scarsa.

Il mondo del lavoro è chiamato anche a raccogliere le sfide dell’automazione. Qual è il rapporto tra questa evoluzione, necessaria per rimanere competitivi, e le dinamiche del lavoro?
Gli effetti dell’automazione 4.0 smart spaccano verticalmente in due il campione di aziende analizzato e lo dividono tra ottimisti (il lavoro sarà più qualificato) e pessimisti (esuberi maggiori sia nell’industria che nei servizi). Gli ottimisti sono oltre il 42% sia nel Bresciano che nel Vicentino, sono oltre il 44% nell’industria e nei servizi e sono maggioranza assoluta nelle categorie dimensionali maggiori. I pessimisti, che prevedono esuberi nell’industria, sono anche in questo caso intorno al 40%. Dalla ricerca si desume che gli esuberi nell’industria a causa dell’automazione smart sono molto più temuti da chi opera nei settori lavorativi più lontani dall’industria, ovvero le microimprese del turismo commercio. Evidentemente, non vivendola in modo diretto sono più vulnerabili al racconto pessimista.

Ci sono ulteriori elementi di interesse sugli effetti dell’automazione nel mercato del lavoro?
Sottolineo un aspetto che è tra i più rilevanti del cambiamento in atto. Le nuove tecnologie implicano la sostituzione di molti posti di lavoro a tempo indeterminato con altri posti di lavoro, qualificati ma atipici, a tempo determinato. Si disaccoppiano due termini: lavoro qualificato e tempo indeterminato. Questo riguarda il 24% delle risposte, un numero ben superiore di chi vede come effetto delle nuove tecnologie soltanto i “lavoretti” come i raider, che raccoglie il 10% delle opinioni.

Rimaniamo in tema di occupazione. Quanto le aziende pensano di ricorrere alle assunzioni nei prossimi mesi?
Oltre la metà delle imprese ha dichiarato l’intenzione di assumere nuovo personale. È una percentuale impressionante. A mio avviso in questo convergono diversi fattori. Il più importante, per una quota significativa di imprese di maggiori dimensioni, è il cambiamento dell’organizzazione del lavoro, l’immissione di più tecnologie implica la necessità di nuove competenze di lavoro creativo. D’altro canto, il vincolo della scarsità incide: i lavoratori decidono di cambiare azienda, c’è un’offerta giovanile molto inferiore al passato e, non va dimenticato, c’è l’onda dei pensionamenti in arrivo nelle fasce sopra i 55 anni.

Quali sono, per gli imprenditori, gli ostacoli maggiori alla crescita occupazionale?
Prima di tutto il cuneo fiscale, indicato da più della metà del campione (53,3%), poi l’eccessiva burocratizzazione delle normative (31%), il reddito di cittadinanza (30,7%). Il cuneo fiscale è sentito oneroso soprattutto nel Vicentino, nei servizi più che nell’industria e nelle imprese con più di venti addetti. Nel Vicentino è avvertita come oppressiva la burocratizzazione, nel Bresciano è più malvisto il reddito di cittadinanza, nel Veronese la carenza di motivazioni e l’indisponibilità alla flessibilità.

Quali sono le caratteristiche che gli imprenditori apprezzano di più nei propri collaboratori?
Inprimo luogo la motivazione, poi l’affidabilità e al terzo posto la disponibilità alla flessibilità. La motivazione conta soprattutto nel Vicentino e nell’industria, l’affidabilità spicca nel Bresciano e nei servizi, la disponibilità alla flessibilità è valutata in modo maggiore nel Veronese e nel commercio e turismo. Più è piccola l’impresa più conta la motivazione, più cresce l’impresa più conta l’affidabilità.

Quanto peso ha la formazione nelle aziende?
Molto. Più di tre imprese su quattro fanno formazione aziendale, una percentuale che nel Vicentino lambisce l’80%, lo supera nell’industria e va addirittura oltre il 90% nelle imprese con più di 20 addetti. Anche in questo caso ci sono delle differenze tra province: a Brescia questo compito è affidato soprattutto ai consulenti, mentre nel Veronese e nel Vicentino sono molto attive le associazioni di categoria e nel Vicentino anche l’ufficio interno delle risorse umane. Quasi il 70% delle aziende è soddisfatto dell’offerta formativa del territorio. Il maggior grado di soddisfazione si trova nel Bresciano, nelle aziende di medie dimensioni.

Tra tutte le facce del “diamante” del lavoro, la più opaca è quella del cosiddetto “lavoro povero”, altro ambito su cui la ricerca si è soffermata. Cosa è emerso?
Grazie ai dati del Caf Cgil del Veneto, abbiamo quantificato il “lavoro povero” tra il 5 e il 7%, strettamente apparentato al lavoro irregolare, che è in crescita a causa del caporalato digitale e delle finte cooperative. Non dobbiamo dimenticarlo, richiede uno sforzo congiunto di istituzioni, imprese e sindacati. Ma, alla luce dei dati della ricerca, vista la fame di lavoratori di qualità, non è il tema prioritario, anche se socialmente molto rilevante». •. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Stefano Tomasoni