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Vincenzo Valente Ceci

Vincenzo Valente
Vincenzo Valente
Vincenzo Valente
Vincenzo Valente

"Non è cosa di tutti i giorni che un fucilato venga a trovarti e ti scodelli sulla scrivania un occhio di vetro raccontandoti tranquillamente la sua tremenda storia di uomo che era già stato segnato per l’aldilà. Si chiama Vincenzo Valente ed abita in Via Lughetti a Treschè Conca, sull’Altopiano di Asiago. Ha la moglie e 4 figlioli; è agricoltore, ma in tempo nazi-fascista ha fatto la staffetta dei partigiani ed ha vissuto per lunghi mesi in intimità di passione e di pericolo con i patrioti operanti sull’Altipiano, ma un bel giorno, mentre i rottami dell’esercito tedesco si sbandano verso l’Altopiano con intenzioni di difesa ad oltranza, il partigiano trentanovenne Vincenzo è avvisato che una colonna di tedeschi si dirige verso il ponte di Campiello.
Immediatamente egli corre al Comando della Brigata Pino portando la notizia e dà il suo contributo di buon senso montanaro per risolvere il problema tattico che urge. Dice che bisogna piazzare mitragliatrici ai lati delle valle e che bisogna far saltare il ponte di Campiello per impedire al nemico di rifugiarsi sui monti. Ma gli eventi incalzano e gli uomini della Brigata Pino sono costretti a piazzare le loro armi in altra località. Vincenzo li guida: la località che i partigiani hanno scelto per aspettare i tedeschi è proprio la contrada dove abita con la famiglia il Valente. Fischiano le pallottole e Vincenzo, acquattato vicino a casa sua attende - fra i due fuochi - che si risolva la battaglia tra tedeschi e partigiani: poiché il fuoco non diminuisce egli entra in casa sua. Dopo qualche ora di terrore irrompono in casa di Vincenzo tedeschi e russi con le armi spianate, “raus - caput”, gridano i tedeschi alla famiglia sbigottita: e l’inerme famigliola esce a mani alzate, sospinta dai tedeschi.
Immediatamente Vincenzo ed i suoi familiari vengono schierati al muro; poi arrivano altri paesani, catturati anch’essi nelle loro case mentre attendevamo, a testa bassa - che passasse l’uragano. Allora i tedeschi compongono un piccolo corteo di questi infelici: uno è già caduto ed i nemici lo pugnalano negli occhi. I tedeschi fanno proseguire Vincenzo insieme con altri quattro italiani puntando le armi contro i fianchi: mentre il piccolo corteo attraversa la contrada Treschè Cesuna, altri cinque condannati si aggiungono ai primi.
I tedeschi hanno il gusto dell’esecuzione sommaria: schierano le loro vittime contro il muro di un’osteria, ma poi il luogo non garba e allora i condannati vengono fatti salire lungo un sentiero verso un prato soprastante…vengono spinti entro il bocciodromo dell’osteria delle Oche, sorvegliati da un gruppo di armati con mitraglia pesante. Tutti hanno la precisa sensazione della imminenza della loro fine…
La colonna degli ostaggi vede le mitragliatrici preparare il tiro contro di loro; qualcuno chiede pietà, ma rispondono gli insulti dei carnefici e le risate oltraggiose delle ragazze tedesche che assistono allo spettacolo…
“Sto raccomandandomi l’anima a Dio perché prevedo imminente la fine. Lo prego vivamente di poter vedere mio figlio prima di morire. Ma intanto quattro compagni cadono supini. Non vedo armi puntate su di me. Eppure le scariche sono avvenute.
Avverto un forte dolore all’occhio sinistro, svengo! …ma i carnefici passarono con il frustino per verificare se le vittime erano veramente morte. Alcuni miei compagni vennero finiti a colpi di pugnale, altri a colpi di pistola…Io pure ebbi il mio: fortunatamente il colpo non fu mortale, mi passo da parte a parte il braccio …il partigiano Valente riprende coscienza di sé. Sono steso su una pozza di sangue; cerco di capire qualcosa, ma l’occhio sinistro è fuori dall’orbita ed il destro è velato di sangue.
Con enormi sforzi mi metto carponi, riesco un po’ alla volta a reggermi in piedi ma incespico sui cadaveri di due miei compagni. E’ palese quanto è accaduto.
Cerco di portarmi verso l’osteria alla Pace a pochi metri da lì, dove sapevo che trovavasi lo studente in medicina Guerrino Frigo, quello che noi partigiani chiamavamo il nostro medico e che tanto ci aveva soccorso prima. Ma le forze mi mancano…Egli compie da solo un centinaio di metri: poco lontano un fabbricato brucia e la gente è intenta a portare via la roba.
Il fucilato grida aiuto e una donna lo accompagna fino ad un’osteria vicina… rinvengo in un lettino dell’Istituto elioterapico di Mezzaselva! Erano passati 18 giorni! Ero vivo; eravamo tutti liberi!”
Un capo partigiano “Tempesta” lo riporta il 16 maggio nella casa dei genitori perché i tedeschi hanno bruciato la sua abitazione dopo aver terrorizzato con le armi tutti i suoi familiari. Poi per il Valente comincia l’Odissea più borghese delle firme, dei visti, dei timbri. Il sindaco gli dice che egli è tenuto a pagarsi le spese sostenute in ospedale, ma Vincenzo la spunta anche questa volta. Non l’ hanno ammazzato i tedeschi; non ci riusciranno certamente le pratiche della burocrazia. Va a Padova e gli completano la cura. Ritornato al suo paese il Valente lo invitano a tenere una commemorazione: nessuno meglio di lui saprebbe parlare a ricordo del sacrificio degli italiani massacrati dai tedeschi in quelle ore di liberazione".

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