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Parla Bardin, il mago dei portieri:
«Ecco perché devo delle scuse a Toldo»

di Marino Smiderle
IL PERSONAGGIO. L'ex portiere si racconta: dal rapporto con Trapattoni (solo professionale) a quello col Vicenza («Non mi sono sentito trattato benissimo»)

«La moglie aveva una visita ma l'ho costretto ad allenarsi»
Bardin con gli attrezzi del mestiere di preparatore dei portieri
Bardin con gli attrezzi del mestiere di preparatore dei portieri
Bardin con gli attrezzi del mestiere di preparatore dei portieri
Bardin con gli attrezzi del mestiere di preparatore dei portieri

VICENZA. Adriano Bardin ha scritto un libro perché non sa stare senza calcio. «Alla mia età - sibila sotto i baffi il portiere del Lanerossi Vicenza dei tempi eroici - mi sarei aspettato che mi chiedessero di più». Non gliel'hanno chiesto e lui, con la nostalgia dolorosa di uno spogliatoio vissuto, prima come giocatore e poi come allenatore dei portieri, per oltre 50 anni, ha messo nero su bianco ha concentrato un 231 pagine tutti i ricordi, le gioie, le amarezze che ancora rotolano in disordine, come il pallone. Il libro l'ha intitolato “L'ultimo spogliatoio” (Ipertesto edizioni) e in copertina i grafici di Librartstudio hanno fatto brillare ancora di più la celebre erre attorcigliata, simbolo della Lanerossi, sulla maglia nera da portiere indossata tante volte al Menti e in mille altri stadi. «Mi è venuta voglia di scrivere questo libro - confessa Bardin - al termine della mia ultima esperienza col Vicenza calcio. Nessuna polemica, per carità, però diciamo che non mi sono sentito trattato benissimo. Come ho scritto nel libro, loro mi offrivano quelle che ritenevano opportunità mentre io pensavo di dover essere considerato una risorsa». Bardin è sempre stato così, poche parole e quelle poche mai fuori posto. Chissà come ha fatto a ritrovarne così tante da riempire un libro sugoso come “L'ultimo spogliatoio”, ricchissimo di aneddoti che aiutano a capire perché il calcio, nonostante tutte le magagne, rimanga sempre lo sport più amato dagli italiani. «Mi ha dato una mano mio figlio Andrea - rivela Bardin -. Io raccontavo e lui registrava e annotava. Alla fine, credo, è venuto fuori un buon lavoro». Da dove cominciare? Forse dalla metà degli anni 60, quando Bardin, da poco ceduto dallo Schio al Lanerossi, debutta in serie A al Menti contro il Mantova. Finisce 1-1 e il giovane portiere, al termine della partita, prende il treno Vicenza-Schio per tornare a casa. In mezzo ai tifosi, che ovviamente non lo riconoscono, ascolta i loro commenti. «Gheto visto el bocia, mia male, no?». «Ga zugà bastansa bèn, sul gol però...». «Eh, el ga da farse».  E non si può dimenticare l'amicizia col compagno di squadra Nico Fontana, di Marano, che le traversie della vita non hanno incrinato, anzi, semmai rafforzato. «Non capita spesso nel calcio - ricorda Bardin -. Questo è un ambiente dove la riconoscenza non ha diritto di cittadinanza». Un conto è la professione, un conto è l'amicizia. Dal libro, per esempio, emerge come il rapporto professionale tra Bardin e Giovanni Trapattoni, un binomio inscindibile per una decina d'anni a Cagliari, a Firenze, in Nazionale, a Lisbona e a Stoccarda, sia stato perfetto; ma quando poi si è sciolto (a Salisburgo avevano già un preparatore dei portieri) i due non si sono poi sentiti. Certo, nel calcio bisogna mettere da parte il cuore. Quando, in Nazionale, Bardin e Trapattoni ritrovarono Toldo, già allenato alla Fiorentina e reduce dai rigori parati nella strepitosa semifinale europea con l'Olanda, decisero di promuovere Buffon. «Quando fai la formazione - disse il Trap - non devi tener conto degli affetti».  «E devo dire - ammette Bardin - che anch'io sul campo non ho mai fatto sconti. Anzi, ho ancora il rimorso di aver costretto Toldo a venire agli allenamenti nonostante avesse chiesto un permesso perché doveva accompagnare la moglie a una visita. Non me lo sono mai perdonato e lunedì sera, quando Francesco verrà a presentare il libro, gli chiederò scusa».
Marino Smiderle
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