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Il campione berico

Da Vicenza alle Olimpiadi: quella volta che Caldana abbracciò il mito Owens

Per i campioni dello sport, il tempo è soltanto una misura della loro forza, velocità o resistenza che sia. Come per Giacinto Caldana, detto Gianni, medaglia d’argento con la staffetta 4x100 ai Giochi olimpici di Berlino 1936, che ebbe il vento dalla sua parte e ne conobbe uno dei suoi figli più cari. “Frequentavo le scuole medie a Vicenza. Ci fu una competizione scolastica: mi iscrissero al salto in alto, al lungo, alla corsa veloce e a quella a ostacoli, e forse anche a qualche altra specialità. Vinsi tutte le prove”. Questo era il suo racconto d’una vita sportiva spesa in pista a inseguire gli istanti e poi, una volta tolti gli scarpini, a far fermare i cronometri agli allievi, arrivando ad allenare gli azzurri ai tempi di Berruti. Ricordi di un’epoca in bianco e nero, ma dalle sensazioni fantastiche che rimontavano la corrente degli anni fino ai giorni di Berlino ’36, a un’edizione al confine tra la leggenda e la tragica storia del Novecento. A un braccio abbassato per scelta invece d’essere disteso nel momento della premiazione, e a uno di quegli incontri che impediscono di tornare nell’anonimato e nell’indifferenza: quello con Jesse Owens. Era l’atletica delle braghette e delle buche nella terra come blocco di partenza, dove a contare più di tutto era il talento. Caldana, detto “Johnny” proprio perché in Italia lo comparavano al grande campione americano, era iscritto agli ostacoli, ai 200 metri, al lungo e alla staffetta. Come il grande campione nero, con cui dovette confrontarsi e che poté conoscere. “Non era solo un fenomeno, – ricordava il vicentino scomparso nel 1995 – era un tipo simpatico e cordiale, sempre disponibile, anche se doveva fare i conti col tempo da concedere alle persone. Il mio inglese mi permetteva di chiacchierarci assieme. Quando si allenava sembrava che andasse adagio e invece faceva tempi straordinari. Era un supercoordinato, nessuno sforzo apparente, correva con naturalezza. Era moderno, aveva una facilità di parola che noi ci sognavamo. Noi italiani facevamo il tifo per lui”. Lo stadio berlinese, sosteneva Caldana, non gli fu ostile come è stato anche scritto da allora. Poi, quel confronto memorabile. “Credo fosse l’ultimo giorno di gare. Si correva la staffetta 4x100. La nostra formazione era Mariani-Caldana-Ragni-Gonelli. Eravamo in corsia cinque, in corsia quattro c’erano gli Usa con Owens in prima frazione e Metcalfe in seconda, i due neri, i più forti: per la medaglia d’oro non ci sarebbe stata storia”. In finale pure i tedeschi, orgogliosamente sostenuti dal loro pubblico. Caldana produsse una grande prestazione, recuperando pure qualcosa. Gli italiani volarono e Gonelli fece una straordinaria ultima frazione. Alla fine, i nostri portacolori ottennero l’argento e ai tedeschi andò solo il bronzo. Al momento dell’inno e delle bandiere che salivano sui pennoni dello stadio, Metcalfe e Owens fecero il saluto militare. Davanti, c’erano i tedeschi che levarono il braccio destro nel gesto nazista. Dietro, quattro italiani che sorridevano ma che insieme, per quell’occasione, avevano deciso: niente saluto romano. Tutti quei destini s’erano radunati e incrociati, la guerra era all’orizzonte e avrebbe sconvolto per sempre anche le loro esistenze, portando via con sé tanti compagni e avversari di Caldana. Lui sopravvisse alla guerra. Come se, da protagonista in pista, avesse ricevuto il compito di trasmettere la memoria degli eventi storici e di tante storie personali che non avevano potuto sorpassare il tempo. “Johnny” vide il suo traguardo finale nel 1995, dopo che per una vita, attraverso i ricordi, aveva cercato di restituire ai più giovani quel testimone che in quel lontano pomeriggio a Berlino gli aveva ceduto Mariani. La memoria aveva passato nuovamente la mano.  © RIPRODUZIONE RISERVATA

Saverio Mirijello

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