<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
L'intervista

Carlo Conti: «Dal Festival di Sanremo ai Migliori anni quello che conta è essere sempre veri. Baudo, Corrado e Mike: mi ispiro a loro»

Conduttore, autore, disc jockey. In tanti lo rivorrebbero al timone del Festival di Sanremo

Corteggiato. Perché ha condotto di tutto e può condurre di tutto: questo ha dimostrato, in quarant'anni abbondanti di carriera, Carlo Conti. In tanti lo rivorrebbero al timone del Festival di Sanremo, che ha guidato verso orizzonti nuovi nel triennio 2015-17; in tanti lo rivedranno all'opera questa sera ne «I migliori anni», varietà del sabato sera di Rai1 da sempre premiato dagli ascolti (dalle 21.30).

«I migliori anni» non finiscono mai: un successo che si rinnova all'insegna della continuità. Il segreto?
La bellezza di canzoni senza tempo che la gente è felice di ascoltare. Il nostro programma si basa sul concetto di condivisione: riviviamo insieme al pubblico in studio e a casa le emozioni e i momenti indimenticabili dei decenni passati. Nostalgia e divertimento con canzoni, oggetti, mode e naturalmente bravi cantanti.

C'è il classico «Jukebox», ma anche il «Future Box» con personaggi e dischi che non dovranno mancare alle future generazioni. Guardate anche ai giovani.
Certo, non a caso sono presenti in studio e possono inviare con il telefonino messaggi che diventano motivo di incontro e discussione. In settimana l'interazione avviene via social. E un punto di forza è «Noi che», marchio del programma: come una memoria collettiva del passato, più o meno recente, dell'Italia. Qualcosa che ci appartiene.

Niente male, ripartire con Nile Rodgers.
Quando Nile mi ha detto «Ciao Carlo» e mi ha abbracciato, ho pensato a quanto sono fortunato nella mia carriera, che a Sanremo mi aveva consentito anche di avere un personaggio come Giorgio Moroder nella giuria di qualità del Festival. Una settimana fa abbiamo ricominciato «I migliori anni» col fondatore degli Chic, dopo Rodgers per la seconda puntata arriva Gloria Gaynor: ci divertiremo sicuramente.

Un habitué è Fausto Leali: come nel caso di Tony Hadley classe che resiste all'usura del tempo, potenza e controllo. Quali altre voci l'hanno lasciata a bocca aperta, in tanti anni di conduzione?
Lucio Dalla e Orietta Berti: alle prove pronti-via subito intonati, perfetti. Come due strumenti meravigliosi, irresistibili. Carlo Conti e Maria De Filippi come Jannik Sinner e Carlos Alcaraz: vi stimate, in passato a Sanremo avete anche collaborato, siete rivali ma col sorriso. Rivali no, rivali mai! Assolutamente. Semmai dirimpettai. E in ogni caso io non vivo questo mestiere come una gara. Non l'ho mai fatto. Cerco di fare qualcosa di bello in cui riconoscermi e che possa piacere alla gente.

Fra il 2015 e il 2017 ha avviato una rivoluzione a Sanremo: tre edizioni che hanno aperto la strada a Claudio Baglioni e Amadeus verso un Festival più vicino alle radio e ai giovani. Cosa serve per essere al passo coi tempi?
Energia e capacità di ascolto, oggi come in passato. Per capire come evolvono i gusti musicali bisogna avere orecchio moderno.

Oltre che aprirsi al nuovo: la sua ultima edizione fu vinta da Gabbani con «Occidentali's karma».
E Francesco è stato fra gli ospiti della prima puntata de «I migliori anni» una settimana fa.

In Rai lei ha sempre risposto presente e questo ora le viene riconosciuto.
Mi fa piacere. Mi hanno sempre proposto cose belle, comunque: non un dettaglio per me, visto che oltre conduttore sono anche direttore artistico. In qualche caso ho fatto solo l'autore di trasmissioni condotte da altri, per Nek e per Amadeus ad esempio.

Il Festival è la trasmissione più emozionante che ci sia, per un presentatore, in Italia?
Sanremo è senza pari. Anche io che di solito non mi emoziono ho avuto un brividino al debutto, nel 2015, quando avevo fatto arrangiare come sigla iniziale «La fanfara dell'uomo comune» di Emerson, Lake & Palmer: mi sentivo così, l'uomo comune che da Firenze è arrivato al Festival di Sanremo. E non da solo, visto che due anni dopo, nel 2017, a un certo punto sono entrati dal fondo del palco dell'Ariston Giorgio Panariello e Leonardo Pieraccioni. Li ho visti arrivare e ho avuto la pelle d'oca: quando facevamo la gavetta non avrei mai immaginato di essere all'Ariston con loro, un giorno.

La versatilità è una sua cifra: oggi è anche direttore artistico dello Zecchino d'oro, negli anni 70 e 80 lavorava in discoteca e nelle radio private da dj, ha pubblicato brani italo-disco con tanto di pseudonimo, si è lanciato in tv passando da «Succo d'arancia» su Teleregione Toscana a «Discoring» in Rai. Quando ha lasciato il lavoro di bancario sapeva quello che faceva.
Subito dopo la maturità in ragioneria, ottenuta all'istituto tecnico commerciale e statale ad indirizzo mercantile Duca D'Aosta, un istituto di credito a medio e lungo termine aveva chiamato tutti quelli che avevano preso 60 per un colloquio. Io andai anche se non ero granché interessato: avevo in testa la radio, già facevo programmi. Ma il mio babbo era mancato quando avevo 18 mesi e la mia mamma si era dovuta rimboccare le maniche, dedicando la sua vita alla mia crescita perché prendessi quel benedetto foglio di carta. Dopo il diploma e l'assunzione in banca a tempo indeterminato la mamma era felice, io arrivavo in istituto la mattina e andavo via alle 17, dalle 18 alle 20 trasmettevo alla radio, nei fine-settimana lavoravo in discoteca. Ho tenuto duro a lungo, finché un giorno ho deciso di seguire la mia vocazione. Era la cosa giusta da fare, non me ne sono mai pentito.

«Succo d'arancia» era una covata clamorosa di comici: la svolta fu quella o il passaggio in Rai?
«Discoring» nel 1985 fu un gran bel salto, tanto in alto che non mi sentivo ancora pronto. Per questo allora ho preferito tornare a fare ancora un po' di esperienza nelle emittenti locali.

Ha fatto tournée e poi sfondato con la tv di Stato: da «Domenica in» a «Luna Park», da «Miss Italia» a «I migliori anni» senza dimenticare «Big!» e «I raccomandati», «L'eredità» e «Tale e quale show», «Top dieci» e «Giochi senza frontiere», ma anche i David di Donatello. Nel suo cassetto c'è ancora posto per un sogno? Mi vedrei inviato di «Linea blu», libero di dare sfogo anche alla mia passione per la pesca... La verità è che c'è sempre qualcosa che ci può entusiasmare.

Un bravo conduttore dev'essere un bravo psicologo, un po' come un bravo disc jockey?
Dev'essere naturale, autentico. Se non sei vero il pubblico se ne accorge. E quando conduci sul palco devi saper fare un passo indietro, far splendere gli altri.

Il suo maestro?
Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, che ascoltavo da ragazzo. E i tre giganti dell'arte di presentare in televisione: Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Corrado Mantoni.

Il disco che si porterebbe sull'isola deserta?
«The Dark Side of the Moon» dei Pink Floyd. Senza ombra di dubbio.

Tante serate, tanti posti e altrettante persone: un episodio buffo?
Quand'ero disc jockey ed ero giovane, molto giovane, facevo l'occhiolino alle ragazze carine che passavano davanti alla mia postazione. Una volta ne corteggiai quattro in momenti diversi, non sapendo che fossero amiche: non c'erano telefoni e social, non potevo rendermene conto. Si parlarono fra loro, non ottenni niente.

L'amore vero ha bussato con Francesca, che ha sposato nel 2012. Insieme avete avuto vostro figlio Matteo, nel 2014. L'amore calcistico invece è da sempre la Fiorentina: quale le è rimasta maggiormente nel cuore?
Innanzitutto dico quella del 1969, dell'ultimo scudetto: il capitano era Giancarlo De Sisti che è nato nel mio stesso giorno, il 13 marzo, ed è un piacere ogni anno mandargli gli auguri. Poi c'è stata la Fiorentina di Giancarlo Antognoni, quella di Gabriel Batistuta, quella di Cesare Prandelli... Quanto alla squadra attuale, siamo ancora in corsa in Coppa Italia e Conference League, possiamo finire bene in campionato, può ancora essere tutto. Capiremo alla fine, se è una stagione da incorniciare oppure da salutare facendo i' labbrino, come diciamo a Firenze.

Gian Paolo Laffranchi

Suggerimenti