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L'intervista

«Nel mio "cinema partecipativo" l'altruismo non rende Dio ignoto»

Il regista Rodolfo Bisatti, 61 anni
Il regista Rodolfo Bisatti, 61 anni
Il regista Rodolfo Bisatti, 61 anni
Il regista Rodolfo Bisatti, 61 anni

Sotto il cielo di Araceli Arena si proietta questa sera alle 21.30 - piovesse con un balzo si è al cinema - il film Al dio ignoto di Rodolfo Bisatti, presente per dialogare con il pubblico e con personale del Team Cure Palliative della Ulss 8 Berica.

Bisatti è nato a Padova 61 anni fa ed è vissuto per oltre un decennio a Marostica frequentando, nella vicina Bassano, la scuola Ipotesi Cinema fondata nel 1982 da Ermanno Olmi e Paolo Valmarana. Dopo una raffica di documentari ambienta a Sandrigo e dintorni il primo lungometraggio d'invenzione Il giorno del falco (alla Mostra di Venezia 2005, Giornate degli autori). Il suo ultimo lavoro, Al dio ignoto, accosta il tema della fine-vita, argomento delicato, controcorrente, sul quale il regista ha gentilmente accettato di dialogare.

 

Come è nato il progetto?
«Da una lunga sedimentazione. Nel 1999 Ermanno Olmi mi affida un documentario sulla Domus Salutis di Brescia in cui le suore Ancelle della carità hanno avviato un hospice, struttura nuova per l'Italia, che assiste con cure palliative malati cronici e, importantissimo, dà sostegno anche ai famigliari».

Nel racconto emerge un caso individuale.
«Nel contatto con vari hospice conosco una madre che ha perso la figlia malata di leucemia. Il marito non sa sostenere la perdita e abbandona la famiglia. La donna si dedica ai malati terminali ma capisce che il suo compito è soprattutto stare accanto all'altro figlio segnato dalla perdita della sorella. Questo giovane, Francesco Cerutti, impersona sé stesso nel film diventato per lui una fase dell'elaborazione».

È un ambito inusuale per i cinematografari.
«Lo definisco "cinema partecipativo", infinitamente più elettrizzante della fantascienza. Una cosa che sta addosso alla realtà di tutti e di tutti i giorni, in cui la morte, per quanto edulcorata e occultata, è sempre presente».

Guarda caso l'uscita del film è avvenuta nel pieno del Covid.
«Che ha reso tutto più chiaro e lancinante. La pandemia ha lacerato i legami umani con cui si affronta la perdita irrimediabile. I morti avviati in massa all'anonima sepoltura sono la negazione della nostra civiltà».

In che senso?
«Dovremmo tenerci cari i nostri valori culturali e religiosi, a prescindere dalle scelte di fede. Tolte le incrostazioni di potere, il messaggio di uscire dall'egoismo per farsi carico delle necessità altrui è liberante. Se saremo investiti dalla necessità di creare norme per la fine-vita, il prevedibile giochetto delle speculazioni partitiche andrà vanificato con la riflessione senza preconcetti, realistica, responsabile».

Solidarietà, responsabilità civile ma nel titolo c'è un riferimento religioso?
«Il titolo rimanda a una poesia giovanile di Nietzsche - ne fanno una preghiera le suore del film - che "cita" la missione di Paolo ad Atene secondo gli Atti degli apostoli. Il dio che non conosciamo diventa intellegibile se agiamo, con altruismo».

Riscontri?
«Il cardinal Ravasi, "ministro della cultura" in Vaticano, e alcuni teologi hanno apprezzato la riflessione che non si sottrae alla realtà della morte e la riconduce a una dimensione naturale».

Qualcuno da ricordare che le è stato vicino nel lavoro?
«Mia moglie Laura Pellicciari che prima ha interpretato il monologo teatrale sulla madre che poi ha interpretato nel film. E Paolo Bonacelli, il grande attore (per Pasolini, Antonioni, Wertmüller, Benigni... era Leonardo da Vinci in Non ci resta che piangere) che nel personaggio di un malato terminale dice parole che restano».

Enzo Pancera

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