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Marchioni, il solito ignoto nell’Italia degli anni ’50 col profumo di speranza

Vinicio Marchioni (a sinistra) e Giuseppe Zeno con gli altri protagonisti de I Soliti Ignoti, domani sera sul palco del Remondini a BassanoUn momento della commedia di cui Marchioni è regista e interprete: «Sarebbe piaciuta agli autori», dice
Vinicio Marchioni (a sinistra) e Giuseppe Zeno con gli altri protagonisti de I Soliti Ignoti, domani sera sul palco del Remondini a BassanoUn momento della commedia di cui Marchioni è regista e interprete: «Sarebbe piaciuta agli autori», dice
Vinicio Marchioni (a sinistra) e Giuseppe Zeno con gli altri protagonisti de I Soliti Ignoti, domani sera sul palco del Remondini a BassanoUn momento della commedia di cui Marchioni è regista e interprete: «Sarebbe piaciuta agli autori», dice
Vinicio Marchioni (a sinistra) e Giuseppe Zeno con gli altri protagonisti de I Soliti Ignoti, domani sera sul palco del Remondini a BassanoUn momento della commedia di cui Marchioni è regista e interprete: «Sarebbe piaciuta agli autori», dice

Lorenzo Parolin BASSANO Per il grande pubblico è il Freddo della serie tivù “Romanzo Criminale”, ma nella carriera del 44enne attore e regista di Roma Vinicio Marchioni, ci sono anche la formazione teatrale da attore e regista con un maestro come Luca Ronconi, una menzione speciale alla Mostra del cinema di Venezia e una candidatura ai David di Donatello, oltre a una sequenza di ruoli di primo piano sul piccolo e grande schermo, da oltre dieci anni senza soluzione di continuità. Domani alle 21, al teatro Remondini di Bassano, per Marchioni ci sarà la parte da protagonista, insieme a Giuseppe Zeno, nella versione scenica de“I soliti ignoti”, a capo di una banda di ladruncoli bonari e maldestri. Una delle sceneggiature che hanno fatto la storia del cinema italiano, anche grazie a un cast di attori che vedeva tra gli altri Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni e Totò, si trasformerà, quindi, in copione teatrale «per – parole di Marchioni – riportare il pubblico indietro nel tempo, in un’Italia che profumava di speranza e pur nelle difficoltà sapeva sognare il proprio futuro». Si dice “I soliti ignoti” e, subito, scatta il confronto con la pellicola di Monicelli. Quanto è impegnativo per lei che è anche regista? Senza dubbio molto, anche se il cambio di linguaggio, da cinematografico a teatrale, ci ha regalato anche un po’ di autonomia. Forse più del confronto diretto con la mano del regista è stato impegnativo l’adattamento ai tempi e alle atmosfere del palcoscenico. Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli, però, sono riusciti a conservare la stragrande maggioranza della sceneggiatura originale restituendoci un lavoro che crediamo sarebbe molto piaciuto agli autori, Suso Cecchi D’Amico, Age e Scarpelli. Un film si svolge in ambienti diversi. Come avete ovviato all’impossibilità di spostarvi dal palco? Con una scenografia di tetti e scorci che richiamano le case e i loro interni, in uno spazio teatrale non didascalico ma evocativo. Per quanto riguarda i costumi, invece, siamo rimasti fedeli il più possibile agli anni ’50 nei quali si svolge la storia. L’Italia degli anni ’50: in che cosa si distingue dall’attuale? Era una nazione speranzosa, oggi, invece, dovunque si volga lo sguardo incombe la parola “crisi”. In realtà, nell’accendere la macchina del tempo e tornare indietro di oltre sessant’anni, ci siamo accorti che più di ogni altra cosa è cambiato il nostro rapporto con il futuro. E che conclusioni ne avete ricavato? (Sorride) Che l’italiano rende meglio se è un pochino sotto pressione, un po’ come la Nazionale di calcio che quando è scesa in campo da sfavorita ci ha regalato pagine indimenticabili. Poi, calarci ogni sera nei panni dei Soliti Ignoti ci costringe piacevolmente a porre lo sguardo al “come eravamo” e al “che cosa vogliamo essere”. C’è una ricetta per capire bene ciò che vogliamo essere? Mettere nelle cose un po’ di leggerezza e un filo di autoironia. In fondo ci sono dei difetti che, come singoli e come comunità, ci portiamo dietro da sempre. Capire i nostri limiti e sorriderne il giusto ci aiuta a superarli e a migliorarci. È un messaggio che il pubblico recepisce? Siamo a poco più di un mese dal debutto, a quota 25 repliche. Se dobbiamo giudicare dalla risposta della platea, possiamo tranquillamente dire che il messaggio è arrivato forte e chiaro. Molto probabilmente la storia sta in equilibrio tra comicità e malinconia, ed è questo che lascia una traccia quando cala il sipario. Quindi, che cosa si augura dal pubblico bassanese? Che esca dalla sala dopo un paio d’ore di divertimento consapevole della ricchezza della nostra storia anche recente, e che in questo modo acquisisca un po’ più di amore per l’Italia e per la sua unicità di quello che aveva al momento di accomodarsi in sala. E per sé? Che cosa si augura come attore e regista? Il mio sogno, in entrambi i ruoli, sarebbe di confrontarmi nei prossimi anni con “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola. È un altro dei film che hanno fatto la storia del cinema, non solo italiano, e portarlo in scena in forma teatrale sarebbe davvero una bella sfida. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Lorenzo Parolin

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