Come tre moschettieri, con la punta delle loro spade, dei loro film temprati da un ritrovato senso della passione civile, artistica e politica, hanno dischiuso la porta del cinema italiano per farvi entrare uno spirito nuovo e libero. Dopo la Cortellesi e Albanese, è ora la volta di Michele Riondino e di «Palazzina Laf», un film originale e tagliente che segna il ritorno dell’attore-regista nella sua Taranto, la città con il corpo e l’anima mangiati dal mostro siderurgico dell’Ilva, ai tempi dei Riva, quando l’intimidazione nei confronti di sindacalisti e operai era moneta corrente. E alla presa di coscienza civile di Riondino, corrispondono una pari elaborazione stilistica e un’adeguata accuratezza nella messa in scena. Forse non diventerà universale alla stregua di Montalbano, ma l’operaio Caterino Lamanna, portato sullo schermo da Riondino, è destinato ad affiancare eroi come Lulù Massa (Gian Maria Volonté), il cottimista del film di Elio Petri «La classe operaia va in Paradiso». Lamanna, più furbo ed esuberante che intelligente, è un addetto ai lavori pesanti ed è incapace di vera solidarietà. Vorrebbe stare meglio, guadagnare un po’ di più, e quando il capo del personale Giancarlo Basile (Elio Germano) gli propone un avanzamento di carriera e un posto alla palazzina Laf, sorta di limbo punitivo dove viene sistemato il personale in esubero, accetta senza esitazioni; e senza che il suo temperamento anarcoide protesti più di tanto, si trasforma in un delatore. «Palazzina Laf» vince su tutti i tavoli grazie all’interpretazione eccezionale di Riondino e Germano, a una messa in scena curata e intelligente, alla musica di Teho Teardo e al brano «La mia Terra» cantato da Diodato.