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In sala

L'uomo, il silenzio, la natura. Quando «Il male non esiste»

Il regista premio Oscar per «Drive my car», Ryusuke Hamaguchi, torna con la sua opera più inafferrabile, elusiva ed eterea

Lo aspettavamo un po’ tutti al varco della post-consacrazione, Ryusuke Hamaguchi. Promosso al rango di autore di caratura mondiale dalla standing ovation per «Drive My Car», che ha fatto collezione di statuette e premi da Cannes ai Bafta, dai Golden Globe alla notte degli Oscar, e finito nei radar distratti anche di chi il cinema giapponese lo frequenta giusto in occasione delle feste comandate.

Un'attesa ripagata

Poco da stupirsi quindi che «Il male non esiste», Leone d’Argento in Laguna, fosse tra i titoli più attesi di un 2023 che di cose buone (e anche buonissime) ne ha messe in fila parecchie (ne riparleremo). Un’attesa ripagata con moneta sonante alla prova del grande schermo, anche se il nuovo film del regista di «Happy Hour», «Asako I & II» e «Wheel of Fortune and Fantasy» non è forse il grandioso seguito ai fasti di «Drive My Car» che qualcuno aveva immaginato. O meglio: un passo di lato più che un passo in avanti. Qualcosa di altro e di diverso. Un progetto nato come mediometraggio musicale, in collaborazione con la compagna di mille avventure Eiko Ishibashi, e trasformato in corsa in un’opera da 106 minuti. Dopo un anno di messa a fuoco, di discussioni e di ipotesi, ma soprattutto di interazione diretta con la natura che circonda il villaggio nel quale vive la Ishibashi con il compagno Jim O’Rourke, il cappellaio matto della Chicago anni Novanta (i due hanno lavorato anche alla colonna sonora di «Drive My Car»). Il risultato è una meditazione sfuggente, misteriosa, elusiva.

Qualcosa di diverso

Dopo film pieni di parole dette e scritte («Wheel of Fortune and Fantasy»), film nei quali la parola è un fiume in piena («Happy Hour»), dove persino l’assenza della parola riesce a farsi parola («Drive My Car», tratto da un racconto di Haruki Murakami), Hamaguchi decide di girare il silenzio. Le parole ci sono, certo, ma non servono a niente.

Raccontano solo il vuoto delle intenzioni e delle vite di chi non è in sintonia con il mondo che abita, di chi ha perso una ragione vera per stare dentro alle cose che lo circondano. Al contrario di Takumi, Hana e degli altri abitanti del villaggio di Mizubiki, sui quali incombe la minaccia di un piccolo disastro ecologico. C’è però dell’altro in questa inquietante fiaba ecologista, c’è un qualcosa di ancestrale e spaventoso che aleggia nell’aria gelida fin dalla meravigliosa sequenza di apertura (costruita attorno alle musiche, splendide, della Ishibashi e che non a caso torna in versione dark prima dei titoli di coda): Hamaguchi ce lo suggerisce lungo tutta la pellicola (lo scheletro del cervo, il lago ghiacciato, gli spari) e sembra gridarlo nell’enigmatico finale, come se ci volesse dire che in tutta questa crudele e perfetta bellezza non c’è posto per l’uomo, qualunque sia la distanza che lo separa dalla natura. Un film che resta dentro, che lavora sotto la superficie del visibile. Un grande film.

Luca Canini

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