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IL BILANCIO

È l’apoteosi del multiverso. Lady Gaga stella tra le star

Sette statuette per il fenomeno «Everything Everywhere All at Once» nella lunga notte di Los Angeles. La divina Michelle Yeoh miglior attrice protagonista. Brendan Fraser trionfa al maschile. Poker di premi per «Niente di nuovo sul fronte occidentale». Delusione Steven Spielberg.
Foto di gruppo per la squadra di «Everything Everywhere All at Once»: sette Oscar per il film che ha fatto il pieno sul red carpet di Los Angeles
Foto di gruppo per la squadra di «Everything Everywhere All at Once»: sette Oscar per il film che ha fatto il pieno sul red carpet di Los Angeles
Foto di gruppo per la squadra di «Everything Everywhere All at Once»: sette Oscar per il film che ha fatto il pieno sul red carpet di Los Angeles
Foto di gruppo per la squadra di «Everything Everywhere All at Once»: sette Oscar per il film che ha fatto il pieno sul red carpet di Los Angeles

Stavolta niente schiaffoni a tutto braccio e prime pagine rubate ai veri protagonisti da duelli rusticani e rese dei conti tra maschiacci. Notte degli Oscar doveva essere e notte degli Oscar è stata. Con il doveroso contorno di lustrini, lacrime e colpi di scena; con l’esibizione di Lady Gaga in versione senza trucco e senza parrucco, sulle note di «Hold My Hand», a segnare il momento clou extra-premiazioni; con Jimmy Kimmel padrone di casa decisamente più equilibrista rispetto a Chris Rock e giusto un pizzico di pepe quando è stato rievocato il già citato sberlone di mano lesta Will Smith («se accade qualcosa di inaspettato o violento durante lo spettacolo, fate esattamente quello che avete fatto l’anno scorso: niente»). Insomma, tutto nella norma rispetto al caos del 2022 e l’attenzione rivolta soprattutto ai film (anche perché in gara c’era molto di meglio). Ma andiamo con ordine e partiamo dall’asso pigliatutto.

Il trionfatore. È stata la notte di «Everything Everywhere All at Once», il fenomeno globale targato A24 (per distacco ormai la migliore casa di produzione a livello planetario), che dopo aver fatto saltare il banco nelle sale di mezzo mondo (da ieri è tornato anche nelle nostre) è passato all’incasso di sette statuette. Comprese tre delle più pesanti: miglior film, miglior regia, Daniel Kwan e Daniel Scheinert (al secolo Daniels), e miglior attrice protagonista, Michelle Yeoh. A Ke Huy Quan e Jamie Lee Curtis (centro alla sua prima candidatura, con entusiastica dedica al cinema di genere: grazie!) gli Oscar riservati ai non protagonisti, oltre alla migliore sceneggiatura originale e al miglior montaggio. Un dominio assoluto. Che merita un paio di riflessioni. La prima: un film partito dal basso, un progetto nato quasi per scommessa e affidato a due quasi debuttanti, fuori dai circuiti ufficiali della Hollywood che conta, ha scalato posizioni su posizioni grazie soprattutto all’effetto valanga del passaparola. Una rincorsa partita nel marzo scorso, con l’uscita negli Stati Uniti, e culminata in una serie infinita di riconoscimenti. La seconda: «Everything Everywhere All at Once» conferma che il vento dell’Est continua a soffiare forte su Los Angeles. Michelle Yeoh è la prima attrice di origine asiatica a stringere tra le mani la statuetta che per quattro volte è andata a Katharine Hepburn (nata in Malesia, cresciuta a Londra, è diventata una stella sotto i riflettori del cinema di Hong Kong. E sì: quello accanto a lei in platea era proprio il Jean Todt direttore della Ferrari ai tempi di Schumacher, compagno di vita di nostra signora dei calci volanti da quasi due decenni); Ke Huy Quan, lo Shorty di «Indiana Jones e il tempio maledetto» e il Data dei «Goonies», incoronato sotto gli occhi del padre cinematografico Steven Spielberg, è di origine vietnamita; ma nel cast ci sono anche il veterano James Hong e Stephanie Hsu, per un film che è un frullatore impazzito di immaginario orientale in salsa multiverso, tra omaggi a Wong Kar-wai e un ritmo da kung fu alla Studio Shaw, combattimenti più o meno probabili e rimandi wuxia. Travolgente

I migliori premi Oscar 2023
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Gli altri sorrisi. Smagliante - a ragione - quello di Brendan Fraser, che da meraviglioso protagonista di «The Whale» si è portato a casa l’Oscar come miglior attore protagonista (incontenibile l’emozione dell’ex cacciatore di mummie). Ma l’altro vero mattatore della nottata è stato il kolossal tedesco (con parecchi dollari americani) «Niente di nuovo sul fronte occidentale», miglior film internazionale, miglior fotografia (James Friend), migliore colonna sonora originale (Volker Bertelmann) e miglior scenografia. Quattro Oscar per Edward Berger e compagni: mica male davvero (lo trovate su Netflix). Scontato infine il premio a «Pinocchio di Guillermo del Toro» nella categoria animazione, mentre un po’ a sorpresa tra i documentari l’ha spuntata «Navalny», bioracconto delle gesta del dissidente russo.

Il parterre dei delusi. Uno su tutti: Steven Spielberg. I cui sogni di doppietta (più che legittimi) sono stati spazzati via dal ciclone «Everything». «The Fabelmans» resta comunque uno dei film dell’anno. A mani vuote pure sua grandiosità Cate Blanchett, che con «Tár» puntava al tris, mentre l’intramontabile John Williams ha mancato la sestina (alla 53ª candidatura: solo Walt Disney ne ha ottenute di più). Infine «Gli spiriti dell’isola» e Colin Farrell: zero al quoto su nove nomination. Un quasi record

Luca Canini

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