<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">
SU NETFLIX

«Blonde» e lo specchio scuro della divina Marilyn Monroe

La straordinaria Ana de Armas non basta a riscattare le quasi tre ore di biopic-fiume: troppe cadute di stile, sconfinamenti nel kitsch e passaggi a vuoto
Ana de Armas nelle vesti di Marilyn Monroe: «Blonde» è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia
Ana de Armas nelle vesti di Marilyn Monroe: «Blonde» è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia
Ana de Armas nelle vesti di Marilyn Monroe: «Blonde» è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia
Ana de Armas nelle vesti di Marilyn Monroe: «Blonde» è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia

Nell’anno santo di santa Marilyn Monroe, a sei decadi esatte dalla più misteriosa e chiacchierata delle morti celebri (il 4 agosto del 1962), freschi di docu-serie sulla fitta nebbia che ancora avvolge le ultime ore della più divina tra le divine («The Unheard Tapes»), ci pensa di nuovo Netflix a chiudere il cerchio delle celebrazioni (chiamiamole così...), distribuendo anche in Italia il biopic di Andrew Dominik presentato all’ultimo Festival di Venezia.

Tra lodi a scena aperta (non molte a dire il vero), prese di posizione barricadere, dibattiti da cineforum anni Settanta e più di una perplessità. Perché al netto dei meriti (non troppi ma innegabili e di grande sostanza), di quel che funziona e del troppo che non gira per il verso giusto, non è semplice maneggiare le quasi tre ore di «Blonde», tributo-fiume sotto forma di flusso di coscienza a nostra signora di tutte le star.

Viaggio a tinte horror nell'oscurità della Marilyn privata

Confezionato da Dominik a partire dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates (1999), il viaggio a tinte horror nell’oscurità della Marilyn privata è talmente pieno di difetti che si fa persino fatica a metterli in fila tutti. A partire dalle frequenti cadute di stile, con passaggi che sconfinano nel kitsch da bigiotteria hollywoodiana e spesso esondano nel ridicolo (se non addirittura nel grottesco).

Un paio di esempi? Il dialogo con il feto che fa rimpiangere «Senti chi parla» (il figlio mancato è in assoluto la falla più clamorosa nella fragile intelaiatura della pellicola) e il fugace incontro con JFK in versione maschio tossico (nota bene: nessuno si scandalizza più per un rapporto orale, ma c’è modo e modo di raccontare certe cose). Insopportabile poi il continuo rimando ai traumi infantili, con un piglio da manuale di psicologia spicciola per la terza elementare: alla piccola Norma Jeane manca una figura paterna di riferimento (grazie, l’abbiamo capito); la piccola Norma Jeane è inseguita dall’ombra di una madre alcolizzata e mentalmente instabile (grazie bis, anche questo l’abbiamo capito); la Norma Jeane aspirante mogliettina cerca il «daddy» che non ha mai avuto negli uomini che ama e sposa (ok, c’eravamo arrivati).

Ossessivo, compulsivo, infantile, ridondante, Dominik non ci risparmia niente, dando sfogo a un’idea di arte applicata al cinema che pare quella di un hobbysta cresciuto guardando Mtv negli anni Ottanta, le stilose pubblicità dei profumi francesi, le sfilate della Fashion Week milanese e un paio di film di Andy Warhol. Troppo poco per tenere assieme i tanti, troppi fili sparsi di un biopic-non biopic che esonda e deborda di continuo, sballottando lo spettatore tra le acque agitate di intenzioni poco a fuoco e di mezzi non all’altezza del mito Marilyn.

Incredibile interpretazione di Ana de Armas

Eppure... c’è un eppure. Che risponde al nome di Ana de Armas. L’interpretazione della Bond girl di «No Time to Die» è semplicemente incredibile (Oscar subito e non se ne parli più).

Anche nei momenti di totale sconforto, anche dopo le sequenze che fanno venire voglia di buttare il televisore dalla finestra, uno sguardo, un sorriso esitante, un primissimo piano, rimettono Marilyn al centro di tutto. E non si tratta solo di mimetismo, di semplice adesione iconografica: la de Armas riesce nello stupefacente miracolo di essere la Norma Jeane privata che in pochi hanno conosciuto ma sulla quale tutti abbiamo fantasticato.

Con le sue pene e i suoi dolori, con le sue paure, la sua funerea disperazione. E quando Dominik fa un passo indietro, affidandosi alla forza delle immagini e del mito e non ai trucchetti da fiera delle vanità, il film tocca vette di incanto sublime (le sequenze conclusive, ad esempio, quelle del matrimonio con Arthur Miller-Adrien Brody o lo sdoppiamento da Joker allo specchio). «I’m not a star, I’m just a blonde», risponde Marilyn-Ana de Armas a chi la punzecchia sui vantaggi della vita da diva. Bionda per sempre. Nonostante l’ennesimo tributo sbagliato.
 

Luca Canini
luca.canini@bresciaoggi.it

Suggerimenti