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La recensione

«A passo d’uomo», in cammino con Denis Imbert

Jean Dujardin, protagonista del film
Jean Dujardin, protagonista del film
Jean Dujardin, protagonista del film
Jean Dujardin, protagonista del film

Camminare è sempre scendere: anche la salita sulla cima di una montagna è una sorta di «discesa agli inferi» della psiche e della mente, un tuffo nell’amaro abisso della nostra profondità per vedere e mettere a nudo il nostro cuore. Dal tuffo e dalla fatica fisica si risale sempre in superficie con una nuova consapevolezza. Poi, alcuni esseri privilegiati e fortunati, dispongono di uno strumento prodigioso come la scrittura per dare corpo e forma a questa consapevolezza. Di questo e d’altro, molto altro, parla il film «A passo d’uomo» di Denis Imbert. Il privilegiato in questione è lo scrittore e viaggiatore avventuriero (senza nessuna connotazione negativa) Sylvain Tesson, il quale, nel libro «Sentieri neri», ha raccontato il suo pazzesco viaggio di 1300 chilometri a piedi su vecchie strade e percorsi dimenticati della Francia profonda e recondita, dal Parco del Mercantour nelle Alpi fino a Mont Saint-Michel nel Mare del Nord e alle alte falesie del Nez du Jobourg. Tesson intraprende il suo viaggio, terapeutico dal punto di vista psicologico e mentale quanto arrischiato dal punto di vista fisico, dopo la caduta da un balcone a Chamonix che lo ha mandato in coma con colonna vertebrale, costole e cranio fratturati. Tesson cammina e scrive «Sentieri Neri» e dal libro nasce il film, la sua scrittura diventa cinema. La messa in scena di Denis Imbert è accuratissima, millimetrica nel montaggio che collega passato e presente, causa ed effetto, emozioni e riflessioni. Il favoloso Jean Dujardin diventa Pierre, il suo alter ego sullo schermo, per immergersi nei paesaggi della «France éternelle», la cui verità non è mai tradita dalla fotografia. E alla fine del viaggio ci si sarà resi conto di come sia meglio «sparire nella geografia piuttosto che entrare nella Storia».

Fausto Bona

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