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«Servono sensibilità e competenza tecnica per essere “grandi” nel mercato globale»

L'ENOLOGO. Giancarlo Prevarin, presidente nazionale della categoria

«Piccolo non è più bello neanche in questo settore Il viaggio dei produttori italiani è ad un'altra svolta epocale: noi tecnici siamo pronti a giocare la partita»
Giancarlo Prevarin, di Lonigo,<br />&#232; presidente nazionale<br />dell'Assoenologi: 4.000 iscritti
Giancarlo Prevarin, di Lonigo,<br />&#232; presidente nazionale<br />dell'Assoenologi: 4.000 iscritti
Giancarlo Prevarin, di Lonigo,<br />&#232; presidente nazionale<br />dell'Assoenologi: 4.000 iscritti
Giancarlo Prevarin, di Lonigo,<br />&#232; presidente nazionale<br />dell'Assoenologi: 4.000 iscritti

Se un tempo “piccolo era bello”, oggi “grande è necessario”, perché il “piccolo”, il produttore che non fa grossi numeri, contro i mercati di Cina e Giappone non ha chance. I viticoltori italiani hanno capito che la qualità del vino si fa in vigna, in cantina casomai si mantiene e così da trent'anni a questa parte il vino italiano ha compiuto una rivoluzione. Parola di Giancarlo Prevarin, enologo, alle spalle oltre quarant'anni di esperienza nel mondo del vino: dal 1989 al 2007 direttore generale delle cantine Colli Berici, dal 2007 al 2010 amministratore delegato del gruppo Collis Veneto, poi fino al 2012 Ad per Cielo&Terra. Da alcuni anni è presidente nazionale di Assoenologi, l'associazione enologi ed enotecnici italiani, la più antica del mondo, nata nel 1891, che conta 4.000 soci.
Dal vino in damigiana a un prodotto diffuso di qualità. Come ci si è arrivati?
Dopo il 1986 e lo scandalo del metanolo c'è stata una rivoluzione copernicana nel mondo del vino e tutti si sono orientati verso una miglior qualità. Nel vigneto, prima di tutto: si è cominciato a produrre meno, anche grazie ai disciplinari delle doc, all'adozione di vitigni che danno meno resa, in Veneto per esempio il pinot grigio o bianco accanto alla consueta garganega. La riduzione della quantità di per sé indirizza verso una maggior qualità. Soprattutto si è capito che è in vigna che si fa il vino: in cantina si conserva il prodotto, si deve cercare di non disperdere quanto fatto in natura, ma se non si parte da una buona uva non c'è nulla da fare.
È cambiata anche la tecnica?
Certo. Anche nella vinificazione si sono fatti dei progressi: l'uso del freddo, nel senso della temperatura controllata, che deve essere intorno ai 18 gradi per evitare il blocco della fermentazione, oppure la pulitura del mosto, la selezione dei lieviti per dare una fermentazione regolare, la tecnica di pressatura soffice. Mi ricordo che anni fa i piccoli produttori nel Veneto partecipavano ai concorsi banditi dall'associazione e non vincevano mai. Quanto si arrabbiavano! Però ha funzionato da stimolo.
Si sono diffuse anche figure professionali capaci, l'enologo su tutti.
Senz'altro. Oggi non c'è cantina o azienda che non abbia un professionista, enotecnico o enologo, che segue tutte le fasi della lavorazione, dalla coltivazione alla raccolta alla vinificazione, all'imbottigliamento. Del resto per competere su mercati ampi, complicati, difficili serve produrre con sensibilità e competenza. La qualità non arriva per caso. Abbiamo sempre più consumatori attenti: non si va più al ristorante a chiedere una bottiglia di vino rosso o bianco, i clienti si informano sul nome del produttore, sulla zona. È giusto: il vino è una delle bandiere del nostro Paese, bisogna essere esigenti.
Quali sono le sfide per il vino italiano?
Torno a parlare di qualità. Il marchio Italia è una griffe per il vino, come per la moda. Bisogna continuare a lavorare con serietà e competenza. Poi, siccome dobbiamo misurarci con il mondo, non siamo più Vicenza o la doc tal dei tali, ma siamo, nel mercato, l'Italia contro il Brasile, l'Argentina, l'Australia, bisogna fare sistema. Si fa fatica perché spesso domina l'individualismo, si è tentati dalla logica del “padroni a casa propria”.
È però radicato nella mentalità italiana, figlia della cultura dei Comuni.
Ma non funziona: se vuoi posizionarti in un mercato importante devi farlo con i numeri. Se va il piccolo produttore a contrattare con la grande distribuzione, che veicola la maggior quantità di vino, nemmeno lo prendono in considerazione, perché ha costi maggiori e dà meno garanzie. Se invece hai un portafoglio prodotto importante hai più possibilità di vendere. Vorrei citare il famoso slogan, ovvero “l'unione fa la forza”: se un tempo si poteva dire “piccolo è bello” adesso direi che “grande è necessario”. Ricapitolando perciò la sfida è fare squadra e mantenere la qualità, che è l'imperativo per vendere qualsiasi prodotto alimentare: è una cosa seria, non si scherza con la salute delle persone.
Fra qualche giorno si apre Vinitaly: che ruolo e che peso hanno le fiere come questa oggi?
Hanno un duplice valore: fanno da vetrina, perché in un chilometro quadrato si trova il mondo. Un compratore passa dalla Sicilia al Veneto, può conoscere le nostre tipicità, farsi un'idea della varietà e della ricchezza del panorama vinicolo italiano. Poi sono preziosa occasione di confronto fra i produttori: se ci si deve alleare si può cominciare dal trovarsi intorno ad un tavolo lì.
Vede qualche rischio?
Sarà da verificare quest'anno l'affluenza: siamo in tempi di spending review anche per le aziende vinicole e una fiera costa.

Silvia Castagna

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