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Chrysos raddoppia e prenota la “Rjc oro responsabile”

Il cantiere aperto dalla Chrysos per il raddoppio del capannone
Il cantiere aperto dalla Chrysos per il raddoppio del capannone
Il cantiere aperto dalla Chrysos per il raddoppio del capannone
Il cantiere aperto dalla Chrysos per il raddoppio del capannone

Nuovo capannone e certificazione “Rjc-Responsible jewellery council” per la Chrysos di Romano d’Ezzelino. Anno di grandi progetti, il 2019, per l’azienda orafa fondata nel 1987 dai fratelli Carlo e Francesco Bernardi: a gennaio ha iniziato il raddoppio del primo capannone, cui verranno aggiunti circa 2.500 metri quadri, parte di un più ampio progetto di ampliamento. E proprio in questi giorni è in corso la certificazione “Rjc” per la responsabilità sociale d’impresa. «Abbiamo deciso di portarla avanti - spiega Francesco Bernardi - sia per motivi etici, sia perché alcuni buyer importanti hanno cominciato a chiedere che l’oro sia certificato. Questo non può che essere un bene, e il prossimo passo spero sarà la tracciabilità del prodotto, che è l’unica soluzione per far valere il Made in Italy». La Chrysos, del resto, non solo ha un prodotto totalmente fatto nei capannoni di Borso del Grappa, ma quasi tutto, a partire dalle macchine, è fabbricato dai 150 dipendenti. «Abbiamo eliminato quasi totalmente l’outsourcing perché, pur costando di più, questo ci garantisce uno standard di qualità costante. Anche le macchine per le lavorazioni speciali vengono disegnate e costruite in azienda. Investiamo tantissimo in ricerca e sviluppo e questo ci ha permesso di sopravvivere alla crisi che ha investito il settore delle catene e che non è ancora finita». E le preoccupazioni, nonostante il 2018 abbia registrato un aumento della produzione e un fatturato costante, non mancano per il contesto generale. «Non so se questo Paese punti ancora sul Made in Italy o no. Per me è importante, ma non pare così da parte delle istituzioni. Credo sia ancora spendibile, ma se non lo valorizziamo faremo la fine di altri distretti: i francesi compreranno ciò che è rimasto». L’estero è lo sbocco per il 95% delle catene e dei gioielli del marchio “Officine Bernardi”, venduti in oltre 50 paesi, oltre che – per quanto riguarda il brand – nel negozio di piazza S. Marco a Venezia. «I principali mercati sono l’Estremo Oriente e gli Usa che da quando c’è Trump stan volando: abbiamo due società e un ufficio a New York sulla 5a Strada». Ma Bernardi vorrebbe avere a disposizione il riconoscimento del prodotto “100% made in Italy”: «Cerchiamo di proporre qualcosa di sempre diverso e questo strumento ci aiuterebbe. Per competere bisogna crescere, investire, fare ricerca, ed è ciò che ci ha fatti andare avanti senza mai un’ora di cassa integrazione in 30 anni, anzi investendo e aumentando il personale. Con i nuovi capannoni, nei prossimi anni, l’intenzione è assumere altre 100 persone. Abbiamo dipendenti che sono qui dall’inizio, ma anche i loro figli. L’età media è inferiore a 40 anni e per noi i giovani sono fondamentali: sono bravi, hanno voglia di fare». Anche per questo, nell’ambito dell’ampliamento si pensa anche alle scuole. «Mi piacerebbe realizzare un piccolo laboratorio didattico, con le macchine che non utilizziamo più, per mostrare alle classi tutto il processo di lavorazione in modo sicuro e far loro conoscere questo settore fin da piccoli». E a proposito di giovani, in azienda sta già entrando la 2a generazione: Luca e Stefano, figli di Francesco, e Alessandro, figlio di Gianni, terzo fratello che siede in cda, sono già “arruolati” e la speranza è che anche chi sta ancora studiando (altri tre cugini) voglia seguire questa strada. «Molte imprese si fermano alla prima generazione – commenta Francesco – noi stiamo affrontando pian piano questo passaggio. Ma dandoci un’impronta manageriale: ci sono competenze che devi reperire fuori». • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Maria Elena Bonacini

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