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Il reportage

Nella casa di Vitaliano Trevisan dopo il lutto

I fiori incastrati nel cancello di casa Trevisan da due ragazzi thienesi
I fiori incastrati nel cancello di casa Trevisan da due ragazzi thienesi
I fiori incastrati nel cancello di casa Trevisan da due ragazzi thienesi
I fiori incastrati nel cancello di casa Trevisan da due ragazzi thienesi

In mezzo a tante analisi, controanalisi, ipotesi e controipotesi, reportage del dolore e pensose riflessioni sulla fragilità umana, sul prima e sul dopo più che sul durante, ci voleva un viaggio. Una sorta di allucinazione per certi versi comico-assurda. Bastava arrivare in contrada Molino a Campodalbero nel Comune di Crespadoro, dove lo scrittore Vitaliano Trevisan è stato trovato morto l’altro giorno, in cerca di una casa con le pareti bianche, con tre rampe di scale che portano ad uno spiazzo vicino ad un piccolo torrente. Alberi spogli, erba secca, una macchina parcheggiata di lato, la moto coperta da una cerata, in un crocchio di stradine dove le case si contano sulle dita delle mani. Accanto all’abitazione dell’attore e drammaturgo vicentino, un Cristo in croce, il dialogo eterno degli uomini, della natura dei sentimenti, che presagiva la scoperta di un presepe poco lontano, un muto cantico di fede e certezza, una lode silenziosa di quella strana concatenazione che è più forte di ogni sciagura. E la gente che camminava e che passava accanto a quell’abitazione dove da una finestra s’intravedeva una batteria e una baraonda poco organizzata di oggetti di ogni genere, come accade in tutte le case quando si vivono. Quando diventano bozzoli per creare in una sorta di resilienza domestica cercata, costruita lontana dagli uomini e dal mondo. Una piccola roccia, infilata in una gola dove non ci sono piattaforme per il teatro, e nemmeno set cinematografici, ma sicuramente spazi per scrivere, pensare, comporre, immaginare, vivere. Poi i problemi che lo scrittore aveva li conosciamo tutti, ne aveva parlato apertamente sollevando un dibattito sul tema degli ospedali psichiatrici. Ce l’aveva fatta, ancora una volta, del resto si sa la storia è una pagina da copiare. Nella sua parte migliore.

Eppure quella casa non ha il sapore della desolazione, sembra più un bozzolo in fase di trasformazione. Adattabilità sembra la parola magica per descriverla, la stessa che lo scrittore aveva nell’impostare i suoi personaggi o nel pensare a tutti i lavori con i quali si è confrontato, ha creato universi paralleli per planare sui fogli bianchi che la scrittura offre, capaci di riempirsi di quell’assoluto a cui Trevisan ci ha abituati. Con i suoi comportamenti, spesso sopra le righe, con le sue letture sempre marcate con quell’accento veneto che non riusciva a cancellare, o con l’amore dei giorni folli o della follia dell’amore.

Chissà a che cosa pensava Trevisan in quella casa? Dove scriveva il suo ultimo libro per Einaudi di cui aveva già deciso il titolo “Black tulips”, tulipani neri e di cui aveva anche anticipato alcuni brani in una rassegna letteraria che si è tenuta a giugno di due anni fa a Nervesa della Battaglia con il cantautore trevigiano Ricky Bizzarro. Paolo Repetti, uno degli editor della casa editrice Einaudi, lo ricorda con la sinteticità di un “cinguettio” «Hai guardato nei dirupi più profondi dell’animo umano. Eri un artista vero. Di quelli che sentono prima degli altri, con l’orecchio poggiato sui binari, il rumore tellurico che arriva da lontano. Non ti piaceva l’umanità per nulla. Ma amavi le singole creature». Anzi, ci verrebbe da aggiungere, nei suoi libri ci faceva spesso giocare per capire o indovinare quali erano le aziende, chi erano i personaggi protagonisti, individuabili anche se spesso mai citati. Anche quello era un modo immediato per creare una sorta di memoria collettiva, di adagiare germogli in un deserto che arricchisce il nostro mare di naufraghi, soprattutto in questi ultimi tempi. Due ragazzi si avvicinano superano il Cristo portano un fiore bianco, lo infilano nel cancello della casa dalle pareti bianche. «Prima di uno scrittore, era un amico e ci dispiace sapere che è morto». Lo sguardo si posa su quei fiori una coreografia che nessuno nota, il gesto di una grazia naturale non appesantito dal perché e che trattiene una musicalità antica, incantevole. Dove uno scrittore forse si è cancellato. Però non ci troviamo in un universo indifferente, che non è fatto per noi, che sfugge al nostro controllo e che ci risulta comprensibile solo in parte. Questo aveva imparato Edipo alla fine delle sue peripezie. Credeva di potere tutto con la forza della sua intelligenza; ha scoperto che brancolava nel buio e non poteva niente. Ma alla fine gli dei, lontani e silenziosi, lo hanno salvato. E forse lo scrittore con il titolo del suo ultimo libro, Tulipani neri, voleva parlarci di tolleranza, di giustizia, di amore vero che resiste, cresce e fiorisce nonostante tutti gli inciampi che la vita ci impone. 

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Chiara Roverotto

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