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L'attrice-paziente e il pubblico-psicologo per spiegare gli addii (scientificamente)

RASSEGNA. A Carrè, per Teatrotraipiedi, interessante prova dell'attrice torinese Giulia Pont: simpatia e intelligenza
È monologo da applausi “Ti lascio perché ho finito l'ossitocina”
Giulia Pont a Carrè durante l'applaudito monologo. FOTO A. COLBACCHINI
Giulia Pont a Carrè durante l'applaudito monologo. FOTO A. COLBACCHINI
Giulia Pont a Carrè durante l'applaudito monologo. FOTO A. COLBACCHINI
Giulia Pont a Carrè durante l'applaudito monologo. FOTO A. COLBACCHINI

CARRÉ Ci sono tanti motivi per cui si lascia o si è lasciati: dai più "elevati" - come un'inconciliabile incompatibilità di carattere o progetti di vita diametralmente opposti - ai più "terra terra", come la stramaledetta tendenza del partner a lasciare aperto il tubetto del dentifricio o la sua scarsa attitudine alle pulizie domestiche. La giovane attrice torinese Giulia Pont, però, ha un'idea del tutto personale e interessante al riguardo: per lei, infatti, è tutta colpa dell'ossitocina, ormone che riveste un ruolo importante nella spinta all'accoppiamento, così da garantire la sopravvivenza della specie. Se scarseggia, il rapporto langue. Il suo monologo "Ti lascio perché ho finito l'ossitocina" vuole dunque essere la spiegazione scientifica della chiusura di un rapporto d'amore: amore che non è - chiarisce ancora Pont - quell'insieme di sentimenti e di emozioni che banalmente si potrebbe pensare, quanto semmai un'alterazione dello stato psicofisico dell'individuo, né più né meno di una tossicodipendenza, cosicché, di conseguenza, l'abbandono procura solo un'inevitabile crisi di astinenza. Basta crederci. Spassoso e coinvolgente, lo spettacolo di e con Giulia Pont, inserito nel festival itinerante Teatrotraipiedi, ha aperto l'altra sera al centro culturale Caradium di Carrè la rassegna comunale "Benvenuti a teatro". Lo spettacolo si muove con scioltezza, ben costruito dall'attrice-autrice sia sul versante testuale che su quello dell'interpretazione e mosso con buon ritmo dalla regia di Francesca Lo Bue. Per quanto riguarda il testo, il suo fluire è pieno ma non pesante, giocato con equilibrio tra la leggerezza di una comicità diretta e di facile presa, allunghi in profondità e voli surreali, con non pochi spunti piacevolmente originali. Dal teatro-nel-teatro dell'incipit (nel quale incontriamo la protagonista intenta a recitare in uno strampalato spettacolo d'avanguardia) l'allestimento mette subito le carte in tavola, spezzando la quarta parete e coinvolgendo il pubblico in quello che, per tutti i sessanta minuti circa della prova, sarà un gioco a due, tra l'attrice-paziente e il pubblico-psicoterapeuta. Un gioco divertente, a patto che lo si sappia fare: e Giulia Pont se la cava decisamente bene, complice la sua naturale simpatia e l'intelligenza di non forzare mai troppo la mano,"sentendo" il pubblico e muovendolo come e quanto necessario, portando così il suo personaggio dalle paranoie iniziali alla catarsi finale, risolta nel divertente psicodramma che chiude la piéce. Buona anche l'interpretazione. Il corpo e soprattutto il volto e la voce sono strumenti duttili nella mani dell'attrice, a ricreare con efficacia situazioni e personaggi diversi: dalla parrucchiera Rosy, psicoterapeuta deludente, al trio prodigo di consigli formato da mamma, zia e nonna, fino a Silvia, l'odiosa amica in comune con Stefano, l'ex fidanzato che l'ha lasciata per avere i suoi spazi, poter suonare l'ukulele e modellare statuine... Così, tra rabbia e sensi di colpa, tentativi di autoconvincersi che "single è bello" e inutili manovre di riavvicinamento, lo spettacolo corre via piacevole e intrigante. Brava Pont, che per questo lavoro ha anche vinto il concorso di monologhi "Uno" di Firenze nel 2012. A.A.

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