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L'intervista

Paolo Lanaro: «Il Palladio è una gabbia. Ha impedito a Vicenza di svilupparsi e crescere»

«La cultura non la propone un'Amministrazione, è fatta di movimenti lenti e sotterranei. Non colgo cambiamenti. La poesia? Uno sforzo senza fine»

Fare i conti con il passato, anche se poetico, non è sempre semplice. Significa sollevare un tappeto e guardare bene quello che c'è sotto. Osservarlo dall'alto al basso e viceversa. Poi, da destra e sinistra. Ancora, da sopra e sotto. E, quindi, capire le emozioni. Se rimangono un antidoto alla seduzione dell'insensibilità, se resistono alla tentazione di chiuderci. Se ci aiutano a toccare emozioni, a saperle riconoscere. Paolo Lanaro è un signore di 75 anni. Capelli grigi, volto leggermente scavato, zigomi alti, con quell'eleganza tipica di chi sa armeggiare con le parole, i versi, i concetti, le trasformazioni, le critiche. Con gli universi di un tempo e quelli di oggi che non combaciano proprio alla perfezione. Che contengono immagini deformate, sogni storpiati, realtà che non si accoppiano. Eppure, è riuscito a mettere assieme 40 anni di poesia. Un inno, a volte sofferto e dolente nel suo lento distillarsi, al potere lenitivo e nutritivo della parola, come fosse un'ancora alla quale aggrapparsi per non affogare nel mare della solitudine. Ma al contempo anche una denuncia della forza enorme che le parole contengono.

Lanaro, poeta e scrittore, si è laureato in Filosofia a Padova, ha insegnato in molti istituti superiori. Per Locusta, storica casa editrice vicentina, ha curato l'antologia "Forme del mistico" (1988). Nel 2013 con Fernando Bandini e Giorgio Faggin "Corrispondenze. Album di traduzioni poetiche" (Edizioni Accademia Olimpica). Nel 2014 con Cierre ha pubblicato "Una tazza di polvere", un romanzo autobiografico, cui sono seguiti, sempre con lo stesso editore, "La città delle parole" (2015), e un secondo romanzo, ancora di carattere autobiografico, "Contro i venti invisibili" (2017).

Nel 2019 è uscito "Ogni cosa che passa". Nell'agosto del 2020 con Anna Zago e Theama Teatro ha messo in scena un suo monologo teatrale: "Voglio pensare a Shakespeare". Ha collaborato con vari artisti: Pompeo Pianezzola, Silvio Lacasella, Rosario Morra, Alberto Rocco, Giovanni Turria, Luciano Vighy, Pino Guzzonato, Toni Vedù, Lucia Marzotto. Ha scritto su quotidiani e molti periodici. È membro ordinario dell'Accademia Olimpica. Da poche settimane è arrivato nelle librerie "Un giorno dopo l'altro. Poesie scelte dal 1981 al 2021" edito da Ronzani.

Lanaro, perché questa pubblicazione: quarant'anni di poesie scelte per far passare quale messaggio? 
Diciamo che le antologie si impongono. Rappresentano un punto fermo. Ho scritto otto libri di versi e ormai sono introvabili. Volevo recuperare parte del lavoro che era stato composto, creato. Far conoscere gli antecedenti.

Con quale criterio sono state scelte le poesie?
Non è stato per nulla semplice. Credo che il libro rappresenti la somma di sacrifici dolorosi.

Temi particolari?
No, direi che l'ordine è essenzialmente cronologico. Ho fatto qualche ritocco, ma insignificante. Ho scelto un punto al posto di una virgola e viceversa.

Che effetto le ha fatto rileggersi negli anni?
Non rinnego nulla di quello che ho scritto, ogni verso appartiene alla maturità poetico linguistica che avevo in quel momento. Certo, ho trovato qualche ingenuità o soluzioni che oggi eviterei, è inevitabile accada. Dietro ad una poesia c'è già un lavoro di riscrittura finché arriva la versione finale. Ritoccarle non aveva senso.

Nella prefazione cita Gottfried Benn: «Tutto è sfiorato, nulla è compiuto. L'incompletezza come condanna e come risorsa della poesia». Ce la spiega meglio?
Questa citazione va maneggiata con i guanti. Benn, a mio avviso, è stato il più grande lirico del Novecento, anche se era stato accusato di collusione con il nazismo. Credo vada presa letteralmente: quando ti metti a scrivere poesie pensi ad una specie di totalità, poi ti rendi conto che abbracciarla è impossibile. Sia il progetto che lo sforzo che hai fatto per portarlo a compimento non si esauriscono mai e tu finisci solo una parte di quello che avevi in testa.

Lei ha sempre avuto due forme letterarie: prosa e poesia. Pregi e limiti dell'una e dell'altra?
Si tratta di scritture molto diverse, anche se a volte ci sono parentele e connessioni insospettabili. Un tema che ha attraversato una riflessione critica lo puoi trasformare in un saggio oppure in un articolo. E lo si può ritrovare, anche se mediato e trasformato, all'interno di una poesia.

Un esempio?
Nelle mie poesie ho sempre affrontato il concetto del tempo che trascorre, per me è sempre stata una sorta di ossessione. E il medesimo argomento fa da sfondo nei libri che ho scritto. Certo, sono più memoir che ti danno una possibilità di espansione superiore rispetto ai versi. La poesia gioca sulla concisione che fa circuitare i significati con chiusure rapide, improvvise che mettono alla prova il lettore.

Che cosa ricorda di Fernando Bandini, oltre al fatto che le ha fatto conoscere Vittorio Sereni e Giovanni Giudici?
Ho imparato molte cose da lui, anche se non so bene quali. Il mio mentore è sempre stato Roberto Roversi. Fin da giovane ho letto le poesie di Fernando, ma ricordo anche i litigi, le infinite discussioni. Spesso camminavano su e giù lungo piazza dei Signori e parlavamo di politica, letteratura e molto altro. Non escludo che quelle conversazioni, durate anni, abbiano esercitato una funzione pedagogica. Era un fine letterato con notevole capacità di giudizio e con orientamenti precisi sostenuti da letture e riflessioni profonde.

Che anni erano quelli per Vicenza?
A metà degli anni Ottanta c'erano Neri Pozza, Bandini, Gigi Meneghello, Virgilio Scapin, Mario Rigoni Stern. Erano punti di riferimento importanti e anche molto diversi tra loro. Genus irritabile vatum valeva in particolare per Pozza e Meneghello.

Ha vissuto la sindrome del fratello di...?
Direi proprio di sì. Per questo volevo fare il chimico. Silvio era un enfant prodige cresciuto con una personalità rilevante, forte. Ricordo un episodio: quando abitavamo a Malo con i nostri genitori incontravamo Dino Meneghello. Lui si informava sulle vicende scolastiche di Silvio e poi chiedeva di me. A quel punto rispondeva mia madre "bravetto anche Paolo". E un'altra volta stavo passeggiando con Silvio, incontriamo Bandini e sua moglie Luisa e Fernando rivolgendosi alla moglie disse: "Conosci Silvio, il fratello di Paolo?" Mi sembrava impossibile... Fu una piccola rivincita. Con lui parlavo solo in dialetto perché era un dialettofono.

Che cosa le piaceva di suo fratello?
Era un retore, uno storico. Aveva una capacità fenomenale nel comunicare. Poteva parlare trenta minuti e non c'era una ripetizione. Le sue lezioni all'università erano famose e seguitissime. Io sono un oratore ansioso, rimango una persona emotiva.

Da Schio che cosa si è portato a Vicenza?
Una volta pensavo ben poco. Ora mi accorgo che è molto di più di quanto abbia creduto. Infatti, sono convinto che le mie radici autentiche siano nei torrenti e nei campi dell'Alto Vicentino. Se Bandini aveva un cordone ombelicale che lo legava a Vicenza, io non l'ho mai avuto. Lui in contrà del Guanto si sentiva all'interno di una koinè. Ecco, diciamo che provo questo sentimento quando torno a Malo oppure a Schio.

Rienzo Colla, il proprietario della casa editrice "Locusta" le regalò un libro importante: "Lettere ad un giovane poeta" di Rainer Maria Rilke, che cosa significò?
Rilke aveva elementi di spiritualità che sicuramente interessavano all'editore vicentino. Quando il letterato tedesco spinge Kappus verso la scrittura - poiché è la più grande opera d'arte, che nasce da dentro, da un'esigenza interiore insopprimibile - capisci che ha ragione. Che funziona proprio in questo modo.

Lei è conosciuto per avere un carattere un po' scontroso e poco accomodante: corrisponde?
Sì e no. Sono scontroso perché le circostanze mi impongono di essere così.

E quali sono le circostanze?
Politiche e culturali. Non sono una persona che dice "Tutto va bene Madama la Marchesa". È una questione generazionale. Avevo vent'anni nel 1968, lo sono a priori. Quando accadono certe cose mi sembra che denuncia e polemica siano doverose: perché tacere?

Ha insegnato filosofia per molto tempo che cosa le hanno dato gli studenti?
Ho imparato molto. A stare con gli altri, per esempio, ad affrontare argomenti complessi cercando di renderli in qualche misura comprensibili a tutti. Era uno sforzo importante e formativo. Poi dialogavo con i ragazzi, li capivo perché avevo due figli giovani, quindi riuscivo a decifrare meglio certi linguaggi. Anche allora c'erano episodi di apatia e distacco, ma erano contenuti.

Oggi come vede i giovani?
Non posso dire nulla, non li conosco. E non voglio giudicarli. Individuo, da quando insegnavo, il ruolo nefasto dei genitori. Spesso mi sono trovato davanti padri e madri che non volevano figli solidi, maturi, pronti ad affrontare le circostanze della vita; spesso preferivano gratificarli in continuazione, esaudendo desideri e pure i capricci. Credo ci sia molto da fare partendo anche dagli insegnanti. E poi ho anche qualche dubbio sulla moltiplicazione degli indirizzi. Adesso si sente parlare del liceo "made in Italy", noi siamo cresciuti studiando latino e greco e siamo diventati medici, docenti, ingegneri, linguisti, scienziati e l'elenco potrebbe proseguire.

Il suo rapporto con la politica?
Assembleare fin dai tempi dell'università. Ho fatto parte del partito socialista, della corrente di sinistra, me ne andai quando Bettino Craxi venne eletto segretario. Ma non sono mai riuscito a disinteressarmi. Nel 1993 dopo Tangentopoli con Maurizio Franzina, Egidio Pasetto e Fernando Bandini aderimmo all'Albero della libertà, era un'alleanza democratica di impegno attivo fondata da Willer Bordon.

Conosceva Vitaliano Trevisan, ma l'ha sempre visto come una persona tormentata: era un grande scrittore a suo avviso?
In realtà lo conoscevo poco. Ha scritto libri molti belli: "I quindicimila passi" e "Works". Come drammaturgo non mi ha mai convinto.

Trevisan ha raccolto l'eredità di Guido Piovene, Goffredo Parise?
No, non lo penso. Credo che ogni scrittore abbia dietro di sé storie diverse. Magari i "Quindicimila mila passi" ricorda un po' "Le furie" di Piovene, ma credo che Trevisan abbia attinto molto dallo stile di Thomas Bernhard, martellante, quasi percussivo. Ora abbiamo a disposizione talmente tanti autori che è difficile individuare i modelli.

Come sta l'Italia a cultura?
Siamo sempre alla periferia dell'impero. Lasciando da parte l'arte, l'architettura, la pittura che conoscono ovunque, se pensiamo alla letteratura scriviamo in una lingua periferica. Quanti sono gli autori italiani che vengono tradotti all'estero rispetto a quelli inglesi? Credo che Italo Calvino, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini restino ancora i più conosciuti.

E a Vicenza?
Continuiamo a pensarla come la città del Palladio e questo ha sempre creato una sorta di gabbia museografica che impedisce sviluppo e crescita.

Che cosa cambiare?
I mutamenti arrivano da lontano, non basta certo un'Amministrazione comunale a fare cultura. Si tratta di fenomeni lenti, sotterranei.

Vede qualche segnale?
No, la cultura nasce nei posti più impensabili e Vicenza arranca. Ci sono città più vivaci. Mi viene in mente Pordenone con il festival letterario, lì si vedono imprenditori che lavorano accanto ai cittadini, al Comune, al commercio. C'è una Fondazione che lavora tutto l'anno. Al riguardo mi sovviene sempre la frase di un amico artista. Un giorno chiese ad un imprenditore: «Perché non acquisti mai un quadro? Eh sai, questo mese devo cambiare i cerchioni della Porsche». Direi che la risposta è significativa.

Chiara Roverotto

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