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Intervista al giornalista

Francesco Battistini, un libro dalla trincea in Ucraina: «L’Europa cambierà molto e ci sarà un’altra Nato»

Francesco Battistini, autore  di un libro sulla guerra in Ucraina (Neri Pozza)
Francesco Battistini, autore di un libro sulla guerra in Ucraina (Neri Pozza)
Francesco Battistini, autore  di un libro sulla guerra in Ucraina (Neri Pozza)
Francesco Battistini, autore di un libro sulla guerra in Ucraina (Neri Pozza)

Un libro scritto dalla trincea dell’Ucraina. È quello di Francesco Battistini, giornalista, inviato speciale del Corriere della sera: «Fronte Ucraina. Dentro la guerra che minaccia l’Europa» edito da Neri Pozza. In libreria da una decina di giorni rappresenta una cartina al tornasole di quanto sta avvenendo dallo scorso 24 febbraio. Un reportage lungo 276 pagine nel quale il giornalista, con il suo stile asciutto ed immediato, ci racconta quello che chiama «il nuovo Undici Settembre in mezzo alle macerie di chi era aggredito. Dal Ground Zero di Kiev, di Mariupol, di Odessa, di Kharkiv, di Leopoli. Vivendo l’attacco dei russi, la resistenza degli ucraini, la fuga degli innocenti, i fallimenti della diplomazia, le falsificazioni delle propagande. L’indecenza di Putin che giustifica l’odio citando l’amore evangelico».
Battistini non lascia nulla per strada né all’immaginazione, le sue parole sono precise, decise e arrivano dritte cuore del conflitto, senza esitazione. Inizia dalla storia, raduna culture ed usa pochi aggettivi. Del resto, a che cosa servono quando si è in guerra?

 

Battistini, scrive nell’introduzione che il suo non è un libro di parte: è stato difficile non prendere posizione e raccontare orrori e morte, senza pensare che esisteva un Paese invasore e un altro che veniva invaso. Fatta salva la distanza che ogni giornalista deve tenere quando documenta eventi tanto gravi ed efferati?

La cronaca d’una guerra, se stai sul campo, è quasi sempre da un solo lato del fronte. Ma stare da una parte, narrare l’aggressione stando vicino agli aggrediti, non significa essere di parte. In Bosnia o in Iraq si condivideva la sofferenza di bosniaci e d’iracheni, ma questo non c’impediva, quando le vedevamo, di descrivere le ambiguità bosniache e le porcherie di Saddam. Lo stesso vale quando stai sotto le bombe di Gaza. Chiarito che c’è chi ha attaccato e chi è stato attaccato, però, anche in Ucraina l’invaso non è sempre e solo un agnello sacrificale, l’invasore non è soltanto il lupo feroce. Le guerre sono tragedie che evolvono, piene di chiaroscuri.

 

Lei ha raccontato la guerra dei Balcani in un altro libro edito da Neri Pozza, si dice spesso che quello era un conflitto regionale mentre quello scoppiato in Ucraina rischia di diventare mondiale: perché? Non ci sono diplomatici all’altezza oppure le questioni sono altre?

Anche i Balcani rischiarono di diventare una guerra mondiale: nel libro, ricordo come russi e Nato, già allora, sfiorarono la battaglia per l’aeroporto di Pristina. Gli interessi in Ucraina sono ovviamente maggiori, oggi non c’è da dividersi l’eredità d’un vecchio Stato povero di risorse e ormai dissolto, com’era la Jugoslavia: casomai, qui c’è da spartirsi un nuovo Paese che non è mai stato unito, ricco di suolo e sottosuolo. Anche nei Balcani, la diplomazia diede il peggio di sé: Carl Bildt mi ha confessato, trent’anni dopo, che quando lo incaricarono d’occuparsi di Bosnia, a malapena sapeva dove stesse sulle mappe. E ci vollero anni, prima che qualche leader europeo andasse a negoziare. Il problema d’ogni trattativa, e l’Ucraina non fa differenza, è quel che puoi offrire alla controparte. E trovare chi glielo possa offrire. Al momento, non c’è un leader occidentale nelle condizioni di dialogare con Putin. Per questo, è difficile indicare al Cremlino una possibile via d’uscita.

 

La prima impressione che ha avuto arrivando in Ucraina e poi abbandonando Kiev?

Mancavo dall’Ucraina da un po’ e ho trovato un Paese sfiancato da otto anni di guerra nel Donbass, esausto ancor prima di cominciare a difendersi da quest’invasione. Ho visto crescere la paura. E quando te ne vai, e torni alla tua vita mentre loro restano là, beh, quello non è mai facile.

 

Perché un libro? Riteneva indispensabile testimoniare questo conflitto con qualcosa di più duraturo di un reportage?

Tutti sappiamo tutto dell’Ucraina di adesso. Ma del prima? Mi sono chiesto perché, otto anni fa, c’eravamo convinti che la rivoluzione di Maidan fosse solo un complotto americano ai danni dei russi e che in Crimea non ci fosse stata un’invasione. Perché allora Obama non mosse un dito, sanzioni a parte, mentre il suo vice Biden già s’agitava? Dov’era l’Europa, che continuava ad andare al Cremlino col colbacco in mano? Io me le ricordo, la nostra destra che giustificava l’invasione di Putin e una certa sinistra che non s’indignava troppo. Ecco, m’è sembrato giusto tornare su quel che avevo visto anche prima del conflitto.

 

Come si vive in guerra, come la si affronta?

Se la vivi da giornalista, sei già fortunato perché sai che ne uscirai. Lavori day by day. Non sei tu che fai l’agenda della giornata, è la guerra che te la scrive. Devi avere un buon fixer, un po’ di soldi, un satellitare. Non sottovalutare mai nulla e nessuno. Fare con scrupolo le cose anche più trascurabili, magari conservarsi un bottiglia d’acqua in più, perché ogni piccola scelta di oggi può rivelarsi decisiva domani. E poi la compassione. E la freddezza necessaria a guardare il quadro d’insieme, senza perderti nel dettaglio, o d’osservare il dettaglio per trovarci il senso di tutto.

 

Nel libro scrive “war tour” la prima tappa e Maidan… non le sembra un po’ cinico?

Il cinico non è adatto a questo mestiere, diceva Kapuscinski, uno dei più grandi reporter di guerra. Ma non si riferiva alla battuta, all’autoironia che sdrammatizza, al politicamente scorretto di chi si protegge la psiche dal sangue e dal fango che maneggia ogni giorno. Il cinismo, quello vero, lo scorgo di più in certi salotti tv, nei finti esperti, sui social.

 

La storia, la vicenda più difficile da raccontare?

Per la pericolosità, la battaglia per l’aeroporto di Kiev. Per l’angoscia, il salvataggio di ragazzini bloccati a Sumi o di una coppia d’anziani che stava sotto i bombardamenti oltre il Dniepr. Per la censura militare, le babushke radunate a fabbricare molotov da lanciare sui tank russi. Per la delicatezza dell’argomento, la paura delle coppie europee, i bebè in braccio, che erano venute in Ucraina ad affittare un utero e si sono trovate d’improvviso all’inferno.

 

Che cosa resterà dopo tutto questo?

Un’Ucraina distrutta, forse smembrata. Una Russia precipitata a mezzo secolo fa. Un’Europa che non potrà più limitarsi ad essere un’espressione economica. E un’altra Nato.

 

E come faranno russi e ucraini e mettere la parola fine a tutto questo odio? Tra serbi e croati non è stato semplice.

Serbi, croati e bosniaci s’odiavano anche prima della guerra. E non hanno ancora messo la parola fine. Russi e ucraini, no: questo non è un conflitto inter-etnico, lo è fra due modi diversi d’essere slavi. Tanti mesi di morte, però, moltiplicheranno all’infinito il dopoguerra. E l’odio che ne è nato. Se si farà mai un referendum nel Donbass, dopo una simile catastrofe, lì si capirà quanto i russofoni abbiano smesso d’essere anche russofili.

 

Questa guerra ha visto giornalisti e operatori sempre in prima linea. Non come accadeva in Afghanistan o in Iraq, non si può parlare di embedded eppure la propaganda è stata terribile.

La prima linea è un obbligo. In tutte le guerre. Non ne ho mai vista una che si potesse coprire stando troppo indietro. Anzi: dopo due mesi, e facendo naturalmente gli scongiuri, in Afghanistan e in Iraq erano morti in proporzione più giornalisti che in Ucraina. Anche la propaganda è normale: si ricorda le balle sul Golfo riempito di petrolio, sulla conquista di Bassora, sulle bombe al fosforo a Gaza, sui bombardamenti Nato nei Balcani? E i mille dubbi sui massacri di Racak o di Timisoara? E i silenzi sul massacro di piazza Rabi’a al Cairo? Questo conflitto è più difficile da seguire, perché è il primo descritto nei social. Col vantaggio d’avere tutto e subito e lo svantaggio di non conoscere, spesso, le fonti. Il citizen journalism è ormai la regola e obbliga a smontare le bufale, togliendo tempo ed energie alla necessità di raccontare storie.

 

Il presidente Putin dopo oltre due mesi di guerra continua a minacciare “Se qualcuno cercherà di intervenire in Ucraina la nostra risposta sarà fulminea” ha detto nei giorni scorsi sostenendo che “hanno strumenti che nessuno ha e li utilizzeremo se necessario”: il conflitto può degenerare ancora anche l’utilizzo di armi più sofisticate?

Certo. Però dipende dall’evoluzione della guerra. C’è anche il rischio che s’allarghi ad altri fronti, per esempio a quello polacco-moldavo o anche a quello turco. C’è la possibilità che nell’area esplodano nuovi conflitti “di disturbo”, tipo quello subito abortito a gennaio in Kazakistan, che costringano Putin ad affrontare nuove emergenze impreviste, sguarnendo i battaglioni impegnati in Ucraina.

 

In questa guerra ha avuto la predominanza l’economia il problema del gas o altro ancora.

Il gas è il tema che più preoccupa noi europei. Questa guerra, credo, c’imporrà di rivedere tutta la nostra strategia energetica. A partire dal nucleare.

 

La sua cronologia degli eventi parte dalla caduta del muro di di Berlino, è proprio necessario tornare al 9 novembre del 1989 per capire quanto accaduto.

Per forza. La guerra di oggi è figlia della rivolta di Maidan nel 2014, nipote della Rivoluzione arancione nel 2004 e pronipote dell’indipendenza del 1991: uno strappo da Mosca che fu il seguito della caduta del Muro. Il fronte Ucraina non s’è aperto nel 2022. E per capire l’adesso, serve sapere che cos’è stato il prima.

 

E di Zelensky che idea si è fatto?

Sta interpretando molto bene il ruolo di presidente-resistente. I riflettori dell’emergenza hanno cancellato le ombre sulla sua storia politica, a partire dal rapporto coi russi. La classe politica ucraina è sempre stata corrotta, litigiosa, mediocre. La guerra ha spazzato via dubbi, divisioni, miserie. Ora serve un presidente capace di negoziare, però. Con una visione strategica. E vedremo se Zelensky saprà recitare anche questa parte. 

Chiara Roverotto

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