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L'intervista della domenica

Alessandro Frigiola: «Ho salvato tanti bambini ora la mia missione è formare nuovi cardiochirurghi»

Il dottore "del cuore" dei bimbi: «Mi commuovo ancora a sentire il nome di Amadou, 5 anni, a cui avevo fermato il cuore per poi rianimarlo: da allora il motto è non mollare mai»
Il professore Alessandro Frigiola, il luminare in camice bianco, un eroe del nostro tempo.
Il professore Alessandro Frigiola, il luminare in camice bianco, un eroe del nostro tempo.
Il professore Alessandro Frigiola, il luminare in camice bianco, un eroe del nostro tempo.
Il professore Alessandro Frigiola, il luminare in camice bianco, un eroe del nostro tempo.

«Il cuoricino di un neonato? È grande come una albicocca. Intervenire correttamente su un'area così piccola, dove un millimetro fa la differenza, è la più grande sfida della cardiochirurgia». Sono parole di Alessandro Frigiola, il luminare in camice bianco, un eroe del nostro tempo o, come lo ha definito il capo dello Stato Sergio Mattarella nel conferirgli il titolo di commendatore al merito della Repubblica, un costruttore di comunità, un esempio di impegno civile, dedizione ai valori e ricerca del bene comune.

Frigiola è vicentino di adozione, nato a Bressanone nel 1942, arrivò in città all'età di 4 anni, all'ombra di Monte Berico ha trascorso infanzia e adolescenza e vissuto tutto il percorso scolastico.

Che ricordo ha dei 5 anni di frequenza al liceo classico Pigafetta?

I ricordi sono tanti, mi torna alla mente l'anno in cui frequentavo la terza nella sezione C, una classe di soli maschi, eravamo in 33. Come dimenticare le partite di calcetto, organizzate durante l'intervallo. E poi le battaglie a colpi di palline di carta, lanciate con la fionda, ingaggiate con i coetanei del confinante liceo scientifico Lioy. Epica la rivalità con gli altri istituti durante le gare studentesche di atletica, alla vittoria finale del Pigafetta ho contribuito anche io con qualche successo nella corsa campestre.

Professore, lei è uno dei più famosi cardiochirurghi al mondo, ma dopo le scuole superiori, evidentemente, non aveva ancora lei idee chiare, visto che, prima di iscriversi a medicina, ha frequentato per un anno un corso di studi universitario di ingegneria. È vero che la sua conversione è avvenuta in seguito alla lettura del libro "La cittadella" di Joseph Cronin, un romanzo che racconta della vita di Andrew Manson, giovane e idealista medico scozzese, che conosce e denuncia l'arretratezza delle università e la superficialità con cui i medici talvolta trattano i loro pazienti?

Al liceo, voti alla mano, ero più portato per le materie scientifiche che per quelle classiche, ma effettivamente dopo i primi esami di ingegneria sentii dentro di me crescere un richiamo verso qualcosa di diverso. Lì per lì non capivo cosa fosse, poi, anche grazie alla lettura de "La cittadella" e colpito dal lavoro del dottor Manson, realizzai. Da lì a poco decisi di cambiare ed iscrivermi a medicina.

La sensibilità verso le persone che più hanno bisogno, verso chi subisce ingiustizie, per il solo motivo di essere nato nel posto sbagliato del mondo, l'ha accompagnata fin da giovane. Ancora studente, infatti, decise di iscriversi al Cuamm, organizzazione umanitaria con sede a Padova che si prende cura dei malati in Africa. Durante una delle sue prime missioni umanitarie ebbe modo di incontrare padre Giuseppe Ambrosoli, missionario medico per trent'anni impegnato in Uganda. Che ruolo hanno avuto nella formazione della sua coscienza medica il Cuamm e padre Ambrosoli?

Per chi studiava medicina a Padova era naturale entrare in contatto con il Cuamm. Saputo che cercavano medici da inviare in Africa, mi avvicinai e accettai subito di partire per l'Uganda dove incontrai padre Ambrosoli. Conobbi là una realtà impensabile: pazienti che subito dopo un intervento venivano fatti dormire sul pavimento in terra battuta, persone malate che per farsi curare dovevano vendere i beni di famiglia e poi scarsità di farmaci, di strumenti operatori e vidi ospedali che in Italia mai avrebbero ottenuto quel nome. Padre Ambrosoli si confrontava quotidianamente con quella realtà senza mai farsi scoraggiare, sempre animato da grande entusiasmo. Il suo esempio mi ha fatto capire che avrei potuto rendermi utile a migliorare le condizioni di lavoro di molti colleghi e nell'offrire ai malati una maggiore possibilità di sopravvivenza.

Prof. Frigiola che figura era il professor Josè Aubert, il maestro che l'ha formata all'ospedale di Marsiglia?

Ero stato da poco assunto in chirurgia pediatrica all'ospedale di Vicenza, consultando un volume dedicato a questa materia medica, mi resi conto che il capitolo relativo alle cardiopatie congenite era povero di informazioni, nonostante rappresentassero la patologia più frequente fra tutte le malformazioni e la terza causa di morte nel primo anno di vita. Sentii che in questo ambito avrei potuto dare qualcosa, decisi di partire per la Francia. Ebbi la fortuna di poter lavorare nell'equipe del dottor Aubert. Era un medico dalla forte personalità, per farci crescere ci coinvolgeva in casi molto complessi, ci metteva alla prova su interventi delicati. Lei non immagina quante ore ho trascorso, a fine di giornate estenuanti, a discutere con lui sempre disponibile a spiegarci eventuali errori commessi. Sono rimasto in Francia due anni, è stata una opportunità unica, altamente formativa.

Se le faccio un nome, Amadou, che emozione ancora le suscita a distanza di tanti anni?

Solo sentire il nome mi commuovo. Era un bambino di 5 anni, affetto da una cardiopatia cianogena, solo un intervento a cuore aperto avrebbe potuto dargli speranze di vita, ma nel 1971 era una operazione ad alto rischio e con un elevato tasso di mortalità. L'intervento durò cinque ore, la tecnica utilizzata imponeva di fermare il cuore, una volta concluso non si riusciva a far ripartire il battito. Massaggiammo il cuore per oltre un'ora senza vedere segni di ripresa, il professor Aubert decise di interrompere il massaggio. Se ne andò, lasciandomi solo. Furono attimi indimenticabili, dovevo decidere se continuare o lasciarlo andare. Ripresi il massaggio per altre quattro ore. Non volevo arrendermi, convinto che l'intervento fosse stato eseguito alla perfezione. Ero esausto ma proprio nel momento in cui, insieme agli altri medici dell'equipe, sentivamo di avere perso ogni speranza di salvarlo, quel cuoricino si risvegliò ed ebbe un primo battito, poi un secondo, e in breve raggiunse la frequenza spontanea e regolare. Dopo tre giorni Amadou fu dimesso dalla terapia intensiva, ricordo ancora la sua manina alzata per salutarci. Da allora il mio motto fu: «Non mollare mai».

«Non potevo vedere migliaia di bambini morire di cuore entro il primo anno di vita senza fare nulla!». Professor Frigiola sono sue parole, pronunciate dopo un viaggio in Vietnam, è stata quella la spinta decisiva che l'ha portata a fondare, nel marzo di 30 anni fa, assieme alla anestesista Silvia Cirri, l'associazione "Bambini cardiopatici nel mondo"?

Il viaggio ad Hanoi nel 1982 è stata una tappa importante nella mia vita. Nel Paese si vedevano ancora gli effetti della guerra, gli ospedali erano privi di farmaci, le apparecchiature obsolete. I bambini affetti da cardiopatie non potevano essere operati, la mortalità era molto elevata. In Italia la stragrande maggioranza di loro avrebbe avuto alte percentuali di sopravvivenza, era frustrante pensare che così tante creature andavano incontro alla morte per il solo fatto che in Vietnam non c'erano mezzi e medici per curarle. Al tempo lavoravo all'ospedale di Vicenza e, proprio al mio rientro dal Vietnam, con il professor Belloli, che era il primario, decidemmo di fondare una associazione che si occupasse delle malformazioni congenite. Nacque così l'Abam, che ancora oggi sostiene l'attività dell'Associazione bambini cardiopatici nel Mondo, costituita, appunto, proprio 30 anni fa.

Quanti sono i bambini che debbono la vita a lei e alle sue equipe?

Personalmente ho eseguito più di 16mila interventi e in altri 20mila ho svolto la funzione di tutor dei miei numerosi allievi. Per curiosità ho voluto dare una dimensione alle ore trascorse in sala operatoria. Ho dedicato alla attività chirurgica 15 anni avendo come riferimento sessioni di 24 ore. Quando ho iniziato nel 1970 la mortalità era del 70% e raggiungeva il 90% nei neonati con patologie complesse, oggi siamo nell'ordine del 2-3% di insuccesso e del 7-8% nei neonati. È stimabile che nella mia carriera professionale possa aver "salvato" 18 mila cuoricini. Nonostante questi risultati in più di una occasione ha denunciato che esistono ancora eccessive carenze nei nostri ospedali, tanto da farle affermare che non sono a misura di bambino come invece sono quelli di Stati Uniti, Canada e Inghilterra. In quei paesi i bambini sono sacri e le strutture ospedaliere sono molto organizzate, accoglienti. I nostri ospedali pediatrici sono ancora sovente obsoleti, strutturalmente inadeguati e le ristrutturazioni spesso mal eseguite. Nonostante i concreti passi avanti le patologie cardiache hanno ancora una importante mortalità, necessitano di cure molto costose e di fondi dedicati alla ricerca per trovare nuove soluzioni terapeutiche.

So che le è capitato durante le sue missioni umanitarie, di fronte ad una lista di attesa inesaudibile, di dover scegliere chi operare e chi no. Come si fa a decidere, quant'è l'amarezza, la disperazione per coloro che vengono lasciati al loro triste destino?

È straziante dover scegliere chi operare, magari non riuscendo ad esaudire le preghiere di una madre e di un padre disperati. Attualmente, d'accordo con tutti i colleghi che partecipano alle missioni della nostra associazione, ci siamo affidati ad un criterio che privilegia i pazienti che, una volta operati, possano avere più chance per una vita normale. Ma nonostante questa regola, necessaria, ti rimane sempre un forte peso sulla coscienza.

Dopo centinaia di missioni operatorie in 27 paesi tra i meno attrezzati dal punto di vista delle cure e dopo aver fondato ospedali di cardiologia pediatrica, lei si sta ora concentrando sulla formazione di cardiochirurghi. Nascerà al policlinico San Donato Milanese un centro per far crescere giovani medici. La novità, che, se raggiunta, avrà risonanza a livello mondiale, è che dovrebbero poter imparare a operare i bambini e apprendere le tecniche operatorie potendo simulare gli interventi su modelli che riproducono con assoluta precisione il cuore umano in 3D.

Premesso che continueranno le missioni operatorie nei paesi che hanno bisogno di aiuto per organizzare i loro centri, oggi il problema principale è quello di formare i cardiochirurghi e soprattutto di permettere loro di eseguire da soli una operazione complessa con rischi accettabili. Proprio per risolvere questa priorità abbiamo varato un progetto che, affidandosi alle nuove tecnologie, mira a replicare, grazie alla stampa 3D, modelli di cuore che riproducono esattamente le patologie cardiache complesse da trattare volta per volta. Nel campo è in atto a livello mondiale una sorta di virtuosa competizione. Forti della collaborazione di una squadra di ingegneri e della disponibilità di alcune aziende del vicentino, possiamo dire che non siamo lontani dal raggiungere l'ambizioso traguardo, ossia permettere al chirurgo di simulare un intervento come se operasse su un vero paziente.

Lei ha detto: «Mi sentirei inutile se non trasferissi agli altri tutto quello che ho imparato e so fare».

Di allievi ne ha fatti crescere nel mondo, cito per tutti: Youssef Tamman e Halkaut Nuri. Il professor Tammam è siriano, oggi è responsabile del centro di cardiochirurgia pediatrica a Damasco e a Bucarest. Il dottor Halkaut è vice primario al St. Thomas Hospital di Londra e torna spesso nel suo paese, il Kurdistan iracheno, per missioni operatorie.

Anche una delle sue figlie si dedica a curare il cuore?

Credo sia uno dei doveri di un medico quello di cercare di trasferire le conoscenze che ha acquisito. È vero, anche mia figlia Alessandra ha scelto di diventare medico del "cuore" ed è attualmente primario di cardiologia a Londra e posso dire che ha dedicato la sua vita ai pazienti.

Professore, tra diagnosi, sala operatoria e missioni umanitarie quanto tempo le resta, che padre e che nonno è Alessandro Frigiola?

Il mio lavoro, questo impegno che prevedeva anche sedute operatorie di 12-15 ore non mi ha lasciato molto spazio al di fuori dell'ospedale, nemmeno per la famiglia. Mi rendo conto di avere chiesto grandi sacrifici a mia moglie Cecilia e pure alle mie figlie, Alessandra e Luisa. Passavo giorni interi in ospedale, i pazienti venivano prima di tutto, perché mi sentivo colpevole, se un bimbo operato moriva. Se non avessi avuto questa famiglia al mio fianco, sempre pronta a capirmi e a condividere le rinunce, non ce l'avrei fatta. Sì, posso dire che, insieme, abbiamo dato speranza e vita a tanti bambini.

Luca Ancetti

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