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Il 160° dell'Unità

1861, a Torino l'Italia chiamò

La seduta del primo parlamento nazionale a Palazzo Carignano, Torino
La seduta del primo parlamento nazionale a Palazzo Carignano, Torino
La seduta del primo parlamento nazionale a Palazzo Carignano, Torino
La seduta del primo parlamento nazionale a Palazzo Carignano, Torino

1861: la Torino dei Savoia va dalla seicentesca Città Nuova sul Po ai resti della Cittadella - quella di Pietro Micca fattosi scoppiare nei sotterranei per bloccare i francesi nel 1706 - e dalla Dora al Borgo Nuovo, da poco urbanizzato proseguendo la scacchiera dell'Augusta Taurinorum romana. Dal grande fiume alla periferia di Porta Susa bastano tre quarti d'ora a piedi, compresi strada facendo i saluti a monsù e madamìn e un bicerìn al caffè.

Nel cuore di questa città architettonicamente omogenea - che nonostante i cento locali dove si sorbiscono cioccolate e vèrmot è giudicata noiosa dai viaggiatori europei, abituati a ben altre capitali - il palazzo dei Principi di Carignano si sta trasformando da Parlamento Subalpino a Parlamento del neonascente Stato unitario. Dietro l'ondulata facciata barocca - disegnata da Guarino Guarini, lo stesso della Cappella della Sindone dalla guglia puntuta e, per i lettori vicentini, della berica chiesa dell'Araceli - è attesa l'Italia diventata una, monarchica e sabauda tra il 1859 della II Guerra d'indipendenza e il 1860 dell'impresa dei Mille. Assenti il Veneto, asburgico fino al 1866, e Roma, papalina ancora per un decennio. I torinesi sono 170 mila: assai, per una città del tempo, ma non tantissimi. Napoli, record di popolosità nella Penisola, è due volte e mezza più grande. Milano ha centomila abitanti in più. Sono più grandi Genova, annessa dopo il tempo napoleonico, Roma e Palermo.

Dal 1720 il regno dislocato tra le Alpi e il mare si intitola "di Sardegna", frutto di vicende tra le Potenze del Sud Europa in cui si era abilmente insinuata Casa Savoia, fattasi monarchia italiana per uscire dalla dimensione pedemontana e, appunto, savoiarda.Le industrie si intravvedono appena: la seta è la manifattura più importante, con centinaia di telai nei Lungodora, e ci sono piccoli lanifici e cotonifici. Lo stabilimento più rilevante è quello Regio dei tabacchi. Lo slancio tecnologico è in avvio: del 1837 sono i fanali del primo impianto italiano di illuminazione a gas, del 1859 la Società dell'acquedotto e la Scuola di applicazione per ingegneri che diventerà Politecnico. Il capitalismo non è neppure un nome, ma dal 1849 apre la Banca degli Stati Sardi, antenata della Banca d'Italia. L'ha voluta Camillo Benso conte di Cavour, da dieci anni ministro e capo di governo di Vittorio Emanuele II, sua maestà che parla il francese e il dialetto meglio dell'italiano.

Cavour. Il regno è lui, più ancora che il re, grande appassionato di cacce, biliardi e belle pastore, ma modesto stratega politico. Il conte - che da giovane possidente ha rivoluzionato i vigneti del Barolo e le pratiche agricole delle sue tenute - ha aperto una regione arretrata ai flussi europei.

Ha giostrato tra Destra e Sinistra, tenendole d'occhio anche all'ora di pranzo: precisamente dal suo sedile foderato di rosso in un angolo del ristorante del Cambio, in faccia al palazzo Carignano da dove gli mandano segnali. Ha tessuto la trama dell'appoggio francese contro l'Austria che è valso l'acquisto della Lombardia nel 1859. Ha manovrato i fili che legano a Torino i cospiratori di Emilia, Toscana e Province Pontificie. Ha normalizzato il rivoluzionario Garibaldi, quando ha rovesciato il Regno borbonico delle Due Sicilie e lo ha consegnato "salutando il Re d'Italia" nell'incontro con Vittorio Emanuele, giù a Teano, nella subito mitizzata scena dei due cavalieri. In questo 1861 si compie il suo destino: farà l'Italia, ma morirà in giugno, stroncato da un attacco malarico.Nell'ultimo Parlamento Subalpino siedono alcuni forestieri illustri, rappresentanti anticipati dell'Unità, protagonisti delle fallite rivoluzioni del 1848, fuggiti a Torino e ora preziosi contatti con le terre ancora a guida straniera: tra loro il modenese Manfredo Fanti e il fiorentino Bettino Ricasoli.

Anche la Vicenza del '48 antiaustriaco ha i suoi "onorevoli esuli": Giovanni Bonollo, tragicamente suicida nel Po a tre settimane dalla proclamazione del Regno d'Italia, forse sopraffatto dalle polemiche sulla cessione alla Francia di Savoia e Nizza l'anno prima, forse schiantato da non provate accuse di corruzione; lo scledense Valentino Pasini eletto nel collegio mantovano di Bozzolo; e Sebastiano Tecchio, in futuro ancora deputato, senatore, ministro e presidente di Camera e Senato.

Il Carignano è stretto per la prima seduta del Parlamento finalmente "italiano", votato a fine gennaio-inizio febbraio. Nell'aula subalpina non ci starebbero i 443 onorevoli in arrivo da vecchi e nuovi possedimenti, tantomeno anche i senatori di nomina regia. Nel cortile tra le alte pareti di mattoni viene alzata un salone da mille posti. Il 18 febbraio (discorso di Vittorio Emanuele sull'unità d'Italia "per la concorde volontà dei popoli e il valore degli eserciti") e il 17 marzo (ufficializzazione nella Gazzetta Ufficiale) vi passano i nomi del Risorgimento destinati alle targhe stradali in tutto il paese: Giuseppe Verdi, Giuseppe Garibaldi, Nino Bixio, Raffaele Cadorna, Benedetto Cairoli, Alfonso Lamarmora, Quintino Sella, Enrico Cialdini, Marco Minghetti, Francesco Crispi, Agostino Depretis, Aurelio Saffi.

Torino capitale vive un momento splendido, passerella del potere e dell'Italia grande stato per la prima volta da un millennio e mezzo. Ma una sorte breve. Troppo decentrata, lassù a nord-ovest. Troppo sabauda per restare caput Regni. Troppo storicamente modesta per reggere la prospettiva intravvista: la conquista e l'"italianizzazione" della Città Eterna ai danni di papa Pio IX.Nel 1865 il Parlamento e la corte scivoleranno a sud, a Firenze, tappa emblematicamente prossima alla capitale del destino. E nel 1870 il re, la politica, gli ambasciatori, tutto si sposterà a Roma. Una fortuna, forse, per quella che è diventata una "grande ex". Perché di lì a pochi anni Torino si presenterà all'appuntamento con l'industrializzazione senza più in casa il peso dell'apparato gestore della cosa pubblica, così italianamente ingombrante da allora in poi.

Antonio Trentin

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