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L'intervista

Tonino De Silvestri: «Per liberare Carlo Celadon ho chiesto aiuto anche alla destra eversiva»

L'intervista all'ex sostituto procuratore di Vicenza che condusse le indagini di quello che è stato il più lungo sequestro italiano della storia
Trentatrè anni dopo Tonino De Silvestri, avvocato ed ex pm, sorridente con Carlo Celadon
Trentatrè anni dopo Tonino De Silvestri, avvocato ed ex pm, sorridente con Carlo Celadon
Trentatrè anni dopo Tonino De Silvestri, avvocato ed ex pm, sorridente con Carlo Celadon
Trentatrè anni dopo Tonino De Silvestri, avvocato ed ex pm, sorridente con Carlo Celadon

«Lo confermo. Per riuscire a liberare Carlo Celadon, con suo padre Candido, ho chiesto aiuto alla destra eversiva. Mi hanno messo in contatto con la 'ndrangheta e siamo riusciti ad avere un canale per pagare la seconda tranche del riscatto. Fondamentale è stato un esponente di spicco del Movimento sociale italiano che aveva difeso da avvocato alcuni terroristi neri il quale, attraverso di loro, ci ha dato un contatto. Una volta recapitati gli ultimi 2 miliardi di lire, Carlo è stato rilasciato».

La notizia, sconvolgente perché dopo 33 anni cambia gli scenari e riscrive la storia del più lungo sequestro italiano, quello di Carlo Celadon di Arzignano, in mano ai rapitori per oltre due anni, la dà l'avvocato Tonino De Silvestri, oggi 80 anni, all'epoca il pubblico ministero che seguiva le indagini. Oggi, docente di diritto sportivo in pensione e figura di riferimento della Figc, decide di parlare - ed è uno dei pochissimi che può farlo, con i marescialli dei carabinieri dell'epoca De Luca e Barichello, oggi in pensione - in occasione dell'uscita del film "800 giorni" del regista vicentino Dennis Dellai, che ha raccontato in forma romanzata quel sequestro. «È un ottimo film, ben costruito, appassionante, ricco di pathos. Mi permetto solo di dire che il pm del film De Angelis e il pm De Silvestri di allora non sono nemmeno lontani parenti».

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Avvocato De Silvestri, riavvolgiamo il nastro e torniamo a quel drammatico 1988.
Il sequestro Celadon ha tuttora un ruolo nella storia della criminologia in Italia. Dei 700 sequestri di persona a scopo di estorsione compiuti nella Penisola dagli anni Sessanta in avanti, più di metà furono ad opera della 'ndrangheta e avevano un filo conduttore. Quello di Carlo fu diverso, come diversa fu la mia scelta metodologica: non la linea dura in voga all'epoca fra i magistrati (non si paga il riscatto per evitare che il reato si concretizzi), ma quella cosiddetta morbida: trattiamo con i rapitori. Il mio obiettivo era di riportare a casa il ragazzo.

Cosa ricorda di quei due anni vissuti nell'incubo?
Tutto. Fu un'indagine particolarissima quella che mi fu affidata dal procuratore Canilli, che ringrazio per la fiducia che mi accordò. Mi ha cambiato la vita, nel bene e nel male. Combattere la 'ndrangheta era affare complicato: controllava l'Aspromonte, fino a 2 mila metri d'altezza, 1.450 chilometri quadrati di boschi e anfratti, fiancheggiata dalla popolazione. Ma Carlo, inizialmente, venne rinchiuso in un ovile vicino al Tirreno.

Come catturaste i componenti del primo commando?
Pagando il riscatto grazie alla cosiddetta linea morbida. Il papà di Carlo, Candido, versò 5 miliardi. Ci accordammo con Agip, il telefonista della banda che chiamava dalla Germania in canonica a Montorso. Consegnati i contanti, i carabinieri monitorarono la zona finché non catturarono coloro che avevano incassato la somma. Uno di loro era il basista: aveva vissuto a Montecchio Maggiore, aveva frequentato la stessa palestra dove Celadon giocava a basket.

Ma Carlo non fu trovato.
No, individuammo il covo ma il ragazzo era stato già "ceduto" ad un'altra 'ndrina: è come se avesse subito due sequestri. E c'era un altro riscatto da pagare.

Così ripartirono le ricerche.
E anche le indagini. Ripresero i contatti con Agip e le trattative. L'obiettivo era sempre quello di riportare a casa l'ostaggio. Carlo venne spostato in covi diversi, fra le rocce, rischiando la vita. Lo trattarono in maniera impossibile da descrivere: impiegò 7 mesi a riprendersi. Cercavamo di fare in fretta, ma ad un certo punto Agip sparì. Negli ultimi contatti ci eravamo accordati per pagare 2 miliardi alla seconda banda, ma non si fece più vivo.

Come riusciste a contattare i rapitori? È vero che chiedeste aiuto alla destra eversiva?
Sì. Su consiglio di un amico, alto dirigente di polizia, seppi che alcuni terroristi di destra avevano legami con la 'ndrangheta. Individuai un referente in un avvocato, figura importante del Msi. Attraverso di lui riuscii a contattare diverse persone, finché mi fu indicato un professionista pugliese. La 'ndrangheta non si fidava più di noi, dopo i 5 arresti. Così decidemmo, in queste trattative riservatissime, che Candido consegnasse il danaro ad una figura terza. I soldi giunsero a destinazione e Carlo poi venne rilasciato.

Furono momenti difficilissimi.
Molto. Accadde che Candido, su nostra indicazione, anche perché questi erano gli accordi con i criminali, disse di non aver pagato nessuna seconda tranche, mentre il procuratore Candiani raccontò in tv, a Samarcanda, che era stata versata. In quel momento Carlo era ancora sequestrato, e la sua vita era così ancor più in pericolo. Gli riportai il fascicolo, dicendogli che le indagini le proseguisse lui. Subii varie pressioni per riprendermi l'inchiesta, famiglia e carabinieri mi convinsero a cambiare idea. Così feci, fino alla liberazione e ai processi che seguirono. Ho dedicato 5 anni della mia vita a questa vicenda.

Anche il processo fu drammatico...
Venne seguito in tv da 6 milioni di persone e giunsero le pene richieste. Venni minacciato di morte, ma non volli mai la scorta. Riuscii a far condannare, grazie ad un'indagine credo straordinaria per l'epoca, unico caso per i sequestri, il telefonista: Agip fu arrestato in Germania, noi ascoltammo migliaia di intercettazioni, individuammo la voce e Candido la riconobbe la voce. Lo incastrammo con un complesso studio linguistico grazie alla collaborazione delle autorità tedesche. Ci fu anche un processo nel processo, con la condanna di un avvocato a 6 anni per truffa: aveva cercato di ingannare Candido fingendosi referente dei sequestratori per spillare soldi.

Quale fu la gioia più grande?
È banale da ricordare, ma la carezza data a quel ragazzo sceso dall'aereo. Riportarlo a casa vivo. Questo è stato il mio orgoglio professionale e il mio successo umano, una cosa che mi porterò sempre dentro. Sono contento delle scelte che ho fatto, di concerto con i carabinieri, che mi sono stati sempre a fianco, con determinazione.

Hai mai temuto di non riportare Carlo a casa?
Sì, soprattutto quando non c'erano contatti con la banda. Abbiamo chiesto prove che fosse vivo, anche in quella fase molto delicata (e finora segreta, ndr) delle interlocuzioni con la criminalità politica di quegli anni, in vista di quella che può definirsi "operazione finanziaria", cioè il pagamento dei 2 miliardi di lire. Ci sono stati tanti momenti difficili, ma anche grandi gioie, alla fine. Come quando mi telefonò il presidente della Repubblica Cossiga, che mi disse, testualmente, "mi complimento molto con lei". Sono cose che ricordo, anche con orgoglio, al pari dei successi in tribunale. Ricordo con affetto papà Candido, un uomo pieno di coraggio, che si prese responsabilità pazzesche.

E il film di Dellai l'ha riportata a quegli anni.
Il grandissimo merito di Dellai è stato quello di evitare che si disperdesse la memoria di una vicenda che fa parte del dna della vicentinità. Merita il successo. Ci sono alcune idee geniali, una drammatizzazione efficace e anche la presa per i fondelli di una certa politica. Il pubblico ministero che conduce le indagini nel film, però, lo posso dire con certezza, non mi assomiglia granché.

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Diego Neri

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