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Vicenza

Il bambino
che chiuse
Auschwitz

Oleg Mandić, allora dodicenne, con la mamma e la nonna nei giorni successivi alla liberazione avvenuta il 27 gennaio del 1945
Oleg Mandić, allora dodicenne, con la mamma e la nonna nei giorni successivi alla liberazione avvenuta il 27 gennaio del 1945
Oleg Mandić, allora dodicenne, con la mamma e la nonna nei giorni successivi alla liberazione avvenuta il 27 gennaio del 1945
Oleg Mandić, allora dodicenne, con la mamma e la nonna nei giorni successivi alla liberazione avvenuta il 27 gennaio del 1945

VICENZA.  «Se potessi avere una seconda vita non chiederei nulla di più, ma a una condizione: poter ripetere Auschwitz». L'esperienza di ultimo prigioniero a lasciarsi alle spalle il cancello del più grande campo di sterminio nazista, Oleg Mandic non solo non la vuole cancellare, ma le attribuisce il potere di aver riorganizzato tutta la sua scala di valori, fino a dire che «la mia vita è stata bellissima proprio grazie alla deportazione». Oggi 84enne, il 2 marzo del 1945, quando lasciò il lager dopo sette mesi di detenzione, aveva 12 anni. Di origine croate, figlio e nipote di partigiani amici di Tito, l'ex internato, autore del libro "L'ultimo bambino di Auschwitz", ieri pomeriggio era al palazzo delle Opere sociali, ospite dei sindacati dei pensionati Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil nell'ambito delle celebrazioni per la Giornata della memoria.

 

Sig. Mandic, aveva 11 anni quando entrò nel campo di concentramento da prigioniero politico assieme a sua madre e alla nonna. Cosa ricorda di quel giorno?

Ricordo che è bastata mezza giornata per perdere la mia dignità e diventare un numero. Quello che ho ancora tatuato sull'avambraccio sinistro: IT-189488.

È sopravvissuto anche alle cure di Josef Mengele, il medico noto come "Dottor morte". Cosa le ha dato la forza di resistere?

La presenza di mia madre, dalla quale mi avevano diviso, ma che è riuscita a farsi assegnare la mansione di infermiera e questo le permetteva anche di accedere alle cucine e di allungarmi del cibo in più. Ha aiutato tanto gli altri, ma alla base di tutto aveva l'obiettivo di salvare suo figlio.

Il ricordo più doloroso?

Una mattina punirono una detenuta perché non si era svegliata in tempo per l'appello. La raggiunsero e la bastonarono fino a farla morire, davanti ai nostri occhi.

Cosa le hanno lasciato quei mesi trascorsi tra morte e sofferenza?

La coscienza di aver vissuto una vita bellissima. L'orrore cui ho assistito mi ha permesso di riorganizzare la mia mente e di acquisire la consapevolezza che tutto ciò che di brutto mi sarebbe potuto capitare, mai sarebbe stato così crudele.

Negli anni ha incontrato migliaia di persone e studenti. Si emoziona ancora con la sua storia?

L'emozione è sempre forte. Una delle ultime volte, ero all'isola di Veglia, in Croazia. Subito dopo la proiezione di un documentario che ho realizzato io e ho visto decine di volte, non sono riuscito a parlare per qualche minuto, avevo il nodo in gola (succederà anche nel salone delle Opere sociali, poco dopo l'intervista, ndr).

L'esperienza vissuta le ha mai scatenato un sentimento di odio?

No e l'ho capito a 14 anni: l'odio produce odio, in una spirale che degenera. Io odio te, ti faccio degli sgarri e tu mi rispondi con altri sgarri più grandi. È così che si arriva ad Auschwitz.

Il mondo ha imparato la lezione?

I tedeschi hanno trovato il coraggio di esprimere il loro rammarico per quanto hanno fatto all'umanità. L'Italia non ha mai chiesto perdono per quanto fatto dai fascisti.

La testimonianza dell'Olocausto ha valore anche grazie a chi, come lei, racconta quanto vissuto. Come perpetuare il valore della memoria quando gli ex deportati scompariranno?

È un tema che mi pongo spesso. Eravamo 2.700 nel 2015, oggi siamo 1.700 e io sono tra i più giovani (sorride). Dopo di noi resteranno i nostri libri. Le nuove generazioni ci leggeranno.

 

Laura Pilastro

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