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L'impresa

Una corsa estrema
di 320 chilometri
al gelo dell'Alaska

Pizzato tra percorso 320 chilometri trascinando viveri e una tenda
Pizzato tra percorso 320 chilometri trascinando viveri e una tenda
Pizzato tra percorso 320 chilometri trascinando viveri e una tenda
Pizzato tra percorso 320 chilometri trascinando viveri e una tenda

VICENZA. Ma chi l’ha detto che gli yeti sono esseri mostruosi? Paolo Pizzato, uomo delle nevi di Quinto Vicentino, non ha nulla di abominevole sebbene freddo, sudore e stanchezza lo rendano spesso irriconoscibile e poco umano durante le gare. Alto, espressione gentile, sguardo di chi cerca sempre la sua strada, questo venditore di auto alla caserma Ederle di 53 anni è un appassionato di corse a piedi e maratone estreme. Le pratica dal 2011 ed ogni volta è un’emozione. «Sono appena tornato dall'Alaska, ho corso l’Iditasport Race 200 Mile, 320 chilometri nel bianco di quello Stato americano, e mi ci vorranno almeno un paio di mesi per riprendermi. È stato massacrante».

LA GARA. Lui, unico italiano in gara («poi c’era un francese, gli altri tutti americani») al traguardo c’è arrivato da solo o quasi: «Eravamo una trentina di iscritti, sciatori, bici e moto compresi. Siamo partiti a fine gennaio da Big Lake, 100 chilometri a nord della capitale Anchorage, e l’abbiamo corsa in 4 giorni ad anello, tornando dove eravamo partiti. Alla fine siamo arrivati in 3, io e due ciclisti, tutti gli altri si sono ritirati». A rendere tutto più complicato la distanza dei sette posti di ristoro e di accoglienza dislocati lungo il percorso, a 50 chilometri l’uno dall’altro.

«Quando corri di giorno, a meno 10 gradi e di notte sotto a meno 30, trainando una slitta con viveri e tenda, lo sforzo diventa pesantissimo». Del resto non corri su un comodo tartan, ma su neve farinosa, ghiaccio, insidie di tutti i generi.

LE PAURE. «La mia allucinazione era un muro di nebbia che avevo sempre davanti. Detto che sono anche caduto ed ho preso una brutta botta alla caviglia, la paura l’ho provata in due momenti. Il primo quando ho dovuto attraversare un tratto con l'acqua che scorreva sotto una sottile lastra. Lì sono tutti i laghi e ho pensato: o adesso o mai più, temevo si rompesse ma sono passato con la slitta. Niente a che vedere, però, con quello che mi è successo mentre cercavo di raggiungere un check point. Era notte ed ero così sfinito ed infreddolito che ho pensato di dormire e di scaldarmi dentro il sacco a pelo. Niente da fare, così sono ripartito. Purtroppo ho sbagliato percorso un paio di volte e non sapevo più dove fossi. Non mi vergogno a dire che ho chiesto aiuto alla Madonna e dopo un paio di minuti due fari mi hanno puntato. Erano motoslitte da trasporto, gli autisti mi hanno indicato la strada. Con l’ipotermia in agguato ho davvero temuto di non farcela».

IL RIPOSO. Ora il riposo, ma nella sua stanza-pensatoio dell’abitazione di via Dante, a Villaggio Monte Grappa, la nostalgia è fortissima: «Arrivi al termine di ogni tappa che le dita dei piedi quasi si staccano, però ti rendi conto che corri con gente che ti assomiglia, che ha idee simili alle tue. Non ci sono distinzioni sociali, nazionalità. C’è la natura, l’essenzialità della vita, il rispetto».

Ci vogliono almeno due mesi di preparazione e soprattutto un carattere davvero bestiale: «Ho la fortuna di avere un grande allenatore, Giulio Simonelli. È un ultramaratoneta di Lucca, mi mandava le tabelle e io gliele restituivo con i tempi fatti e la strada percorsa. Il merito di questo risultato è anche suo, anche se il resto lo fa la testa».

DETERMINAZIONE. «Devi essere forte e determinato, saper sognare a occhi aperti e non farti sconfiggere dal freddo, dalla solitudine, dai pensieri. Devi saper forgiare la tua anima, l'esperienza è memorabile ma lì sei da solo, faccia a faccia con te stesso». Ad accompagnarlo passo passo il ricordo di mamma Maria, mancata da poco: «La vittoria è tutta sua». Già, anche gli yeti hanno un’anima dolce. L’appuntamento ora è rimandato alla prossima.

Roberto Luciani

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