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Verona

Lega “nazionale”
«Noi per gli italiani
l’ultima speranza»

Matteo Salvini, leader federale della Lega nord, al congresso veneto. FOTOSERVIZIO MARCHIORI
Matteo Salvini, leader federale della Lega nord, al congresso veneto. FOTOSERVIZIO MARCHIORI
Matteo Salvini, leader federale della Lega nord, al congresso veneto. FOTOSERVIZIO MARCHIORI
Matteo Salvini, leader federale della Lega nord, al congresso veneto. FOTOSERVIZIO MARCHIORI

Roberta Labruna

VERONA

La parlamentare leghista sta in piedi appena fuori dalla sala che sta iniziando a riempirsi di militanti: «Che caldo eh? Mi sono messa un maglioncino troppo pesante. Temevo che il sindaco di questa città ci facesse uno scherzetto e che il riscaldamento non funzionasse», dice ridendo. Nessuno lo cita con nome e cognome, ma Flavio Tosi è il convitato di pietra del congresso “nazionale” della Liga Veneta che ieri ha eletto per acclamazione e all’insegna dell’unità il nuovo segretario Gianantonio Da Re. Perché, per il partito, per i suoi 706 delegati, per i suoi colonnelli e simpatizzanti, l’assise andata in scena alla Fiera di Verona non è come le altre e lo si capisce subito: è uno spartiacque. È un lasciarsi alle spalle anni di lotte correntizie, è cancellare gli ultimi undici mesi segnati dall’espulsione di Tosi, cui questo stesso partito aveva affidato la leadership nel 2012, ed è anche un rivendicare il buono stato di salute del movimento, alla faccia di quanti lo davano per finito, travolto dagli scandali nazionali e dalle divisioni locali. «È stato un anno difficile, ci davano per spacciati e invece siamo ripartiti con tenacia ed abbiamo ritrovato l’unità», dice il commissario uscente Gianpaolo Dozzo, che ha preso in mano le redini del partito quando era nella tempesta e lo ha portato a navigare in acque tranquille. È stato lui il primo a salire su un palco essenziale: un leggìo, un maxischermo, tre bandiere, due della Liga Veneta, quelle con il leone di San Marco, una della Lega nord. «Quelli che hanno lasciato il partito sono ben poca cosa da un punto di vista politico». Persone a suo dire funzionali a «un progetto destabilizzante: creare un partito parallelo alla Lega». E colui che a suo tempo ha messo in moto questa strategia, Flavio Tosi, ha avuto «l’appoggio anche di qualcuno che trovate qui oggi». La stoccata c’è, senza sconti: perché tra coloro che si professavano tosiani non tutti hanno lasciato il movimento, c’è chi è rimasto, per opportunità o per solida convinzione.

Oggi, però, l’intento di tutti è di marciare uniti. E le prime parole del segretario Da Re, in Lega dal 1982, vanno in questa direzione: «Basta con la guerra interna, stiamo uniti, perché uniti si vince. Io posso essere un buon segretario se tutti voi mi darete una mano». Applausi corali. Perché questo vuole essere il congresso della rinascita, che chiude con la Lega tosiana di ieri e tiene insieme quella dell’altro ieri e quella di oggi. Con il padre nobile Umberto Bossi e il leader federale Matteo Salvini seduti vicini. E il Carroccio di oggi torna alle origini, pur con qualche variazione sul tema. Come il tentativo si sfondare al Sud, che a Bossi non piace. Quanto al resto, Luca Zaia batte la grancassa territoriale: «Noi siamo quelli che ieri combattevamo per il federalismo e oggi siamo sempre quelli, i veneti che vogliono guadagnarsi autonomia e indipendentismo. Siamo quelli che combattono per tenere il crocifisso nelle scuole, quelli che la famiglia sono mamma e papà, quelli che credono nelle tradizioni. La nostra Lega resta quella di sempre». Poi tocca a Salvini, che stavolta non indossa la felpa, suonare la carica con afflato nazionale: «Oggi gli italiani ci votano perché siamo la loro ultima possibilità e non possiamo sbagliare: parlare poco e fare tanto e per fare tanto dobbiamo governare. La Lega non cambia, non c’è una Lega locale e una nazionale. Mi chiamano da tutta Italia». Senza remore, afferma che «i problemi di Cagliari sono quelli di Milano e di Treviso: aziende che chiudono e aprono in Romania, pensionati che faticano ad arrivare a fine mese e giovani che scappano all'estero. A questo dico no». Sì invece Salvini lo dice ad andare a votare per il referendum costituzionale: «Renzi ha detto che se perde va a casa, è una grande occasione».

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