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Alte Ceccato

La chiesa
stretta in mezzo
a tre moschee

Momenti di preghiera in moschea. Sotto, la chiesa di Alte. MASSIGNAN
Momenti di preghiera in moschea. Sotto, la chiesa di Alte. MASSIGNAN
Momenti di preghiera in moschea. Sotto, la chiesa di Alte. MASSIGNAN
Momenti di preghiera in moschea. Sotto, la chiesa di Alte. MASSIGNAN

Giorgio Zordan

MONTECCHIO MAGGIORE

La donna porta il niqab, il velo che copre il volto e lascia scoperti solo gli occhi. Attraversa camminando piazza San Paolo, sullo sfondo la croce di Cristo della chiesa stretta in una sorta di morsa da due centri culturali islamici, moschee come più semplicemente le chiamano qui: un centinaio di passi ad Est c’è quella di via Pacinotti, altrettanti ad Ovest e si arriva a quella di via Verdi.

Un viaggio attraverso tre continenti rimanendo nello stesso posto. Alte Ceccato è un crogiolo di lingue e dialetti, che riecheggiano dal parco pubblico, lungo i porticati dei negozi, dai tavolini del bar della piazza a testimonianza della moltitudine di stranieri che risiedono nella frazione. Del resto basta guardare i nomi sui campanelli dei palazzi: la provenienza spazia tra Est Europa, Nord e Centro Africa, ma soprattutto penisola Indiana.

Sorto dal nulla negli anni ’50 sulla spinta di Pietro Ceccato, nel quartiere si concentra la gran parte dei circa 3.700 stranieri censiti all’anagrafe a fine 2015: quasi un terzo del totale dei residenti. E la maggioranza è di religione musulmana. Tanto basta, conseguenza dei recenti attentati di Dacca, Nizza, Monaco e Saint-Etienne-du-Rouvray, ad innescare timori e paure.

«La sera non è sicuro passeggiare, per le vie si incontrano solo stranieri. Prima o poi – è sicura Maria – succederà anche qui. Ho paura di un attentato». Premonizioni e visioni: c’è pure chi, anche se non se la sente di giurarlo, è convinta di aver visto ad Alte anche Mohammed Madad, l’iman marocchino espulso dal ministero dell’Interno. Voci da bar, quello “degli stranieri” come è stato battezzato non si sa bene se perché gestito da una cinese o perché la clientela è multietnica.

Il frequente incrociare di volti asiatici non è una sorpresa: nel quartiere vive la comunità del Bangladesh più numerosa del Vicentino. Dei 1.100 residenti a Montecchio, la grande maggioranza è condensata ad Alte. Una decina di anni fa erano molti di più, ma la crisi ha spinto parecchi ad emigrare in Gran Bretagna e nel Nord Europa. Non li ha però scoraggiati dall’aprire, in tre anni, due centri di preghiera sotto l’egida dell’Associazione culturale musulmana del Bangladesh. Nello scorso decennio, dopo laboriose trattative con l’amministrazione comunale, s’erano spostati da via Galilei in viale Milano: ora hanno raddoppiato tornando in via Pacinotti e via Verdi.

Per don Guido Bottega, parroco di Alte, che non si sente minacciato dopo la barbara uccisione del prete francese. la spiegazione sta nel senso di territorialità innato tra i bengalesi. «Una sorta di conquista del territorio: dove mettono piede diventa loro proprietà». Problematiche non mancano, soprattutto sul fronte della comunicazione tra i due mondi religiosi. I numeri hanno portato la comunità bengalese a chiudersi in se stessa, a trovare sostegno al suo interno, e non ad aprirsi. «Quando manca la controparte – sottolinea don Guido – è impossibile dialogare. Non è mai chiaro chi è a capo della comunità, è un continuo cambiare di persone». Ma un principio di integrazione emerge dal campeggio parrocchiale: con i ragazzi cattolici c’è un musulmano, pur sempre un inizio.

Il clima nei centri culturali, almeno all’apparenza, è disteso. Nessuna ostilità sulla porta d’entrata, anzi mostrano orgogliosamente una sezione di libri, Corano compreso, tradotti in italiano.

Ma all’immagine dei fedeli praticanti ed osservanti non manca il rovescio della medaglia: chi l’alcol non dovrebbe nemmeno guardarlo spesso ne abusa scatenando litigi e risse quando il buio inizia ad impadronirsi di piazze e vie.

L’impatto di una così alta concentrazione di stranieri non poteva che lasciare segni evidenti da un punto di vista residenziale: oltre ad interi palazzi, come quelli in viale Stazione, dove risaltano le miriadi di parabole satellitari e gli odori di spezie, ci sono anche vie totalmente occupate da stranieri. «Eravamo in 35 famiglie italiane – confida un abitante di via Bellini – ed adesso siamo rimaste solo in 4». Ed i cartelli con scritto vendesi permangono numerosi. Come accanto alla moschea di via Pacinotti.

Nei centri culturali ci si può imbattere in incontri curiosi. Come quello con Salam, del Burkina Faso, in uscita dal Ar-Ramham di via Milano. Colpiscono le cicatrici che porta sul viso. Pensi a un reduce da scenari di guerra mediorientali, invece «si tratta di segni identificativi incisi quando ero bambino. Indicano che ero il capo designato della mia tribù, i Mosi, ma ho preferito venire in Italia a lavorare», spiega con una risata prima di correre verso il suo furgone.

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