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«Io, prete ad Aleppo
nell’oratorio
sotto le bombe»

Don Pier Jabloyan, 32 anni, opera nell’oratorio di Aleppo in Siria
Don Pier Jabloyan, 32 anni, opera nell’oratorio di Aleppo in Siria
Don Pier Jabloyan, 32 anni, opera nell’oratorio di Aleppo in Siria
Don Pier Jabloyan, 32 anni, opera nell’oratorio di Aleppo in Siria

In una grande città quasi del tutto distrutta dalla guerra, vive ancora la speranza, almeno all’interno dell’oratorio salesiano di Aleppo, dove in mezzo ai colpi di mortaio la vita per tanti giovani siriani va ancora avanti. Al loro fianco opera da un paio d’anni padre Pier Jabloyan, 32 anni, sacerdote siriano di Don Bosco che venerdì sera era all’oratorio di Schio per un incontro in cui ha parlato della situazione ad Aleppo, sua città natale. In tanti sono venuti ad ascoltarlo, ma anche a sostenerlo con offerte.

Padre Pier, in quale zona di Aleppo si trova l’oratorio?

Nella parte cosiddetta ovest, però a circa 800 metri di distanza dalla linea di fuoco che costeggia la parte est.

Come si riesce a lavorare con la guerra che vi circonda?

Nonostante la situazione di assedio da parte delle forze governative, in qualche modo ce la facciamo. I bombardamenti non sono continui e quindi riusciamo ad andare a prendere e riportare con il nostro pulmino i ragazzi nelle varie zone. Prima di metterci in moto cerchiamo di informarci per limitare i pericoli. Anche se c’è la guerra, abbiamo circa 800 giovani che frequentano la nostra struttura, in cui proponiamo attività educative e ricreative, catechismo, doposcuola, sport.

Il tutto sotto le bombe.

Purtroppo capita spesso che nel nostro cortile cadano bossoli e schegge. Pochi giorni fa un colpo di mortaio ha colpito l’edificio di fianco al nostro e per l’onda d’urto è esplosa buona parte delle nostre finestre. Per fortuna finora nessuno si è fatto male, cerchiamo di stare molto attenti. I pericoli più grossi li corrono i ragazzi, nei loro quartieri.

In che senso?

Di fatto nessun posto della città è sicuro, la morte è dietro l’angolo. Abbiamo perso alcuni nostri giovani, come ad esempio Jack, centrato in pieno da un colpo di mortaio mentre aspettava l’autobus: morto sul colpo. Oppure due giovani animatori di 16 e 17 anni, Anuar e Michelle: un razzo ha colpito il piano del loro palazzo e sono morti tutti e due insieme alla loro mamma. O ancora Nur, una scout di 21 anni, allenatrice, è stata uccisa da un cecchino all’uscita del palazzetto dello sport. I colpi di mortaio o i razzi vengono sparati anche a 3-4 chilometri di distanza, inoltre ci sono pallottole vaganti. Anche il nostro cortile è pieno di buchi.

Un bollettino di guerra terribile. Come si riesce ad accettarlo?

Non si accetta, ma non ci sono alternative. L’unica è vendere tutti i propri averi e partire, ma quella è veramente l’ultima spiaggia per gli aleppini, quando proprio uno non ce la fa più e ha visto morire troppe persone care. Il 40 per cento della città è completamente distrutto, ma gli aleppini hanno imparato a convivere con la distruzione. Mancano molte cose: la corrente è misurata, l’acqua a volte viene interrotta, il gas non c’è, internet va e viene. Gli abitanti in qualche modo si abituano alla mancanza di tutto, ma non alla mancanza di sicurezza. E quando uno non ce la fa più, parte.

Per voi che vivete a ovest è così, per quelli che vivono ad Aleppo est assediata?

Non sappiano molto, non abbiamo molte informazioni.

Siete mai stati minacciati o ostacolati per la vostra attività?

Mai, anzi. Il nostro lavoro è apprezzato anche dai musulmani. Io cammino sempre per la città con la croce esposta e anche il nostro oratorio ha una grande croce.

La tenacia di chi rimane è sintomo di speranza...

La popolazione spera sempre che il conflitto possa risolversi e che nel giro di un anno o due la situazione possa ritornare alla normalità. Ma restare è difficile, si è circondati dalle difficoltà. Noi cerchiamo di fornire le giuste motivazioni ai giovani e alle famiglie e se possiamo diamo anche degli aiuti concreti in viveri e soldi. La città racchiude una grande contraddizione, oscillando tra la violenza della guerra e il tentativo di vivere una quotidianità normale.

Silvia Dal Ceredo

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