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Infiltrazioni mafiose a Nordest, tre arresti

Usare le aziende, in particolare quelle del comparto edile, per riciclare i soldi della ’ndrangheta. È in questo modo, secondo l’indagine della Direzione investigativa antimafia di Padova, che la criminalità organizzata calabrese si era infiltrata tra le province di Vicenza e Verona. Nel corso dell’attività investigativa, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia veneta, sono finite in manette tre persone, mentre altre 36 sono state indagate. I reati ipotizzati dalla procura di Venezia, per tutti, sono associazione di stampo mafioso, estorsione, rapina, usura e frode fiscale aggravata. Tra gli arrestati c’è Francesco Frontera, 42 anni, originario di Crotone, ma da anni residente a Lonigo in via Fossalunga. Frontera, condannato in primo grado a otto anni e dieci mesi nell’ambito del maxi processo “Aemilia” per le infiltrazioni mafiose nel Nord Italia, è stato raggiunto dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Con lui è finita in manette anche la moglie, contitolare dell’impresa edile di famiglia, Aleksandra Dobricanovic, 34 anni, di origine serba, ma anche lei da tempo residente nel Vicentino. La donna, mamma di un bambino, si trova agli arresti domiciliari. Il terzo arrestato è Carlo Scarriglia, 24 anni, residente a San Bonifacio.

IL SISTEMA. Gli investigatori della Dia hanno ribattezzato l’operazione conclusa ieri mattina (in collaborazione con la polizia, i carabinieri e la guardia di finanza delle province du Venezia, Verona, Vicenza, Cremona, reggio Emilia, Bologna e Catanzaro), “Valpolicella”, facendo in questo modo riferimento all’area in cui operavano i soggetti indagati e quelli arrestati. Lo schema, secondo gli inquirenti, è ben delineato: le imprese (quasi tutte del settore edile) finite al centro dell’inchiesta altro non erano che degli scudi (apparentemente legali) per schermare le attività illecite dei titolari. Di fatto le società erano gestite (direttamente o indirettamente) dalla ’ndrangheta, in particolare dagli esponenti dai clan calabresi Grande Aracri di Cutro e Dragone. A far scattare l’operazione è stata la collaborazione di un pentito. In base alla ricostruzione del procuratore aggiunto di Venezia, Adelchi d’Ippolito, la banda che gestiva l’associazione criminale in Veneto e si occupava di tenere i rapporti con i clan, faceva capo alle tre persone arrestate. Frontera e la Dobricanovic risultavano proprietari di un’azienda edile che attraverso sovrafatturazioni e l’aiuto (più o meno volontario) di altri imprenditori sarebbe riuscita a riciclare il denaro frutto di attività illecite. Nel corso delle perquisizioni la Direzione investigativa antimafia di Padova, oltre a diverso contante, ha anche sequestrato una pistola calibro 7,65 con 93 proiettili.

IL MAXI PROCESSO. La nuova operazione antimafia arriva a quasi un anno di distanza dalla sentenza di primo grado del maxi processo seguito all’inchiesta “Aemilia” istruito dalla procura di Bologna, al termine dell’imponente indagine della Direzione distrettuale antimafia felsinea, che aveva fatto emergere la presenza delle infiltrazioni mafiose (legate anche in quel caso alla ’ndrangheta calabrese) nel Nord, tra Veneto ed Emilia Romagna. Il sospetto degli inquirenti, poi confermato dalle condanne dell’udienza preliminare, era che la ’ndrina Grande Aracri avesse feconde infiltrazioni nel settore dei lavori pubblici, grazie a una serie di imprese edili (Frontera è stato infatti un impresario e poi ha lavorato per la moglie), e che le utilizzasse per riciclare proventi illeciti dalle attività criminali in Calabria. Ora lo schema praticamente si ripete. E ancora una volta alcuni imprenditori sarebbero finiti (più o meno consapevoli di quanto stavano facendo) alle “dipendenze” della criminalità organizzata calabrese. Che aveva deciso di investire nelle nostre zone , puntando nel comparto edile, perché, a differenza di altre aree del nostro Paese, nel Nordest, nonostante la crisi, ancora si costruisce, sia nel settore pubblico sia in quello privato. E gli appalti, dai più piccoli alle grandi opere, rappresentano sempre un piatto importante per la criminalità organizzata. Le aziende gestite (più o meno direttamente) dalle cosche e dai clan (in questo caso si tratterebbe di quelli calabresi) si trasformano in una sorta di grandi “lavatrici” per il denaro che proviene (o ritorna) alle attività illecite: dal traffico di stupefacenti all’usura fino alle frodi fiscali. In molti casi, poi, gli imprenditori che finiscono nel “giro” sono soggetti che versano in gravi difficoltà economiche. E una volta entrati nel meccanismo non riescono più a uscirne. «Chi non accettava le regole del gioco - hanno fatto sapere gli investigatori - veniva minacciato». E i metodi usati sarebbero stati piuttosto eloquenti. Come nel classico stile mafioso.

Matteo Bernardini

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