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Addio al padre che andava a tutto gas

Barba bianca e in sella ad una moto: così  padre Giuseppe RabitoPadre Giuseppe Rabito
Barba bianca e in sella ad una moto: così padre Giuseppe RabitoPadre Giuseppe Rabito
Barba bianca e in sella ad una moto: così  padre Giuseppe RabitoPadre Giuseppe Rabito
Barba bianca e in sella ad una moto: così padre Giuseppe RabitoPadre Giuseppe Rabito

L'immagine che resta è quella di un sorridente signore dalla barba bianca, in sella ad una moto. Non certo la rappresentazione ortodossa di un uomo di Chiesa eppure della cristianità padre Giuseppe Rabito, scomparso venerdì 26 ottobre è uno tra i più importanti testimoni e messaggeri del Novecento, tra i fondatori della comunità dei saveriani in Sierra Leone, dove aveva vissuto per ben 57 anni. Ne avrebbe compiuti 100 il prossimo 14 gennaio, lui che era nato nel 1919 a Villaverla e proprio a Villaverla, dov'era cresciuto con la sorella Caterina, sarà celebrato oggi alle 10.30 il funerale. Un anno dopo la scomparsa del concittadino e confratello Marino Rigon, se ne va così un altro villaverlese e saveriano illustre, in grado di lasciare un segno indelebile nella storia contemporanea dell'ex colonia inglese. Come fu il Bangladesh per padre Marino Rigon, così fu infatti la Sierra Leone per padre Giuseppe, entrato bambino in seminario e poi votatosi fin da ragazzo all'ordine saveriano, sotto il quale divenne presbitero nel 1944. Vi arrivò negli anni '50, quando questo popoloso e poverissimo angolo di Africa occidentale non era ancora uno Stato autonomo ma dipendeva dalla Corona inglese. Fu lì che, assieme ai confratelli, padre Giuseppe cominciò l'opera di evangelizzazione ma, soprattutto, l'incessante e quotidiano lavoro per migliorare le condizioni di vita della popolazione, in un Paese che ha, nella sua ricchezza mineraria e di diamanti in particolare, una delle principali cause di sfruttamento e sottosviluppo. Inizialmente però, come ripercorre l'amico di vecchia data padre Vito Gabriele Scagliuso, anche lui per lungo tempo missionario in Sierra Leone, il religioso villaverlese sarebbe dovuto essere assegnato alla Cina, prima della decisione di Papa Pio XII di allargare la presenza saveriana in terra africana: «Quando padre Giuseppe partì, nel 1954, la Sierra Leone era ancora un protettorato britannico e anche per questo trascorse l'anno precedente a Glasgow, per studiare l’inglese». Con l'inizio dell'avventura nel nuovo continente che sarebbe poi diventato la sua casa per quasi sessant'anni, il presbitero vicentino si trovò a dover avviare da zero la diocesi di Makeni retta allora da monsignor Augusto Azzolini (cui seguiranno poi i vescovi Giorgio Biguzzi e, dal 2015, monsignor Natale Paganelli). Una realtà difficile, con un tasso di mortalità specie infantile tra i più alti al mondo a causa di fame e malattie: «Il colera, l'ebola, la malaria - elenca don Vito - non fu facile e non lo è ancora oggi ma padre Giuseppe ebbe un ruolo decisivo nella costruzione della diocesi, aprendo scuole, chiese, comunità, sempre sveglio e vispo, a bordo della sua motocicletta». In sella ad una moto o al volante di un'auto quando l'età cominciò a farsi sentire, il villaverlese che fu parroco, insegnante, direttore del seminario a Makeni, a Binkolo e a Lungi, rimase in Africa praticamente ininterrottamente fino al 2011. «Aveva già più di 90 anni quando rientrò a Vicenza e venne a vivere qui nella casa dei Saveriani in viale Trento - racconta padre Vito - ma so che avrebbe voluto tornare laggiù nella sua missione». Si commuove don Vito ricordando la vivacità di padre Giuseppe, "fino all'ultimo" e la sua grande opera in Sierra Leone: «Era amato e rispettato, aveva stretto contatti con le 19 etnie e andava d'accordo con tutti». • © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giulia Armeni

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