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Schio

Ecco il quartiere
del bimbo rispedito
in Bangladesh

Il quartiere di Mirpur, a Dacca, dove Abu è andato ad abitare. E.CU.
Il quartiere di Mirpur, a Dacca, dove Abu è andato ad abitare. E.CU.
Il quartiere di Mirpur, a Dacca, dove Abu è andato ad abitare. E.CU.
Il quartiere di Mirpur, a Dacca, dove Abu è andato ad abitare. E.CU.

 

Palazzine fatiscenti si affacciano su strade polverose, ai cui bordi cumuli di rifiuti si alternano ai mucchi di materiali da costruzione. L’aria afosa è pregna di odori fra i cantieri dalle impalcature di bambù e le baracche coi tetti di lamiera dove merci le più disparate sono impilate ed esposte alla vista dei numerosi passanti. Uomini con camicie di lino e sandali di cuoio e donne in abiti tradizionali si muovono a piedi o su sgargianti risciò che si infilano ovunque. Poche e scassate le auto, su questa strada laterale. Fra i palazzi e le chiome delle piante tropicali, si staglia sul cielo il disordinato reticolo dei cavi elettrici.

È uno scorcio di Mirpur, quartiere di Dacca, capitale del Bangladesh. È in una via come questa che ora si trova il piccolo Abu (nome di fantasia per tutelare l’identità del minore), il bambino di 11 anni costretto a trasferirsi da Schio nel Paese d’origine. Voleva studiare e realizzarsi e per questo si era impegnato nella scuola diventando addirittura il primo della classe. Uno sgambetto del destino lo ha portato invece nella megalopoli di 15 milioni di persone, una delle città più inquinate al mondo, in cui precarie condizioni igieniche, arretratezza e tensioni sociali sono amplificate da una crescita esplosiva.

Abu è andato a vivere coi nonni, seriamente malati, perché gli zii, bengalesi residenti a Schio ai quali era affidato, devono trasferirsi per lavoro in Inghilterra e dicono di non poterlo portare con sé per motivi burocratici. La madre, che si è risposata, sostiene di non poterlo tenere. Il padre violento è in carcere a Vicenza e si oppone al suo espatrio. L’unica soluzione che i familiari hanno trovato per sistemare il nipote, quindi, è quella di riportarlo nel Paese d’origine prima di partire per Londra, cosa che avverrà a giorni. Una soluzione che sperano sia temporanea, ma che potrebbe non rivelarsi tale.

Il rischio infatti è che la difficoltà di sbrogliare questa ingarbugliata situazione porti come conseguenza che Abu resti in Bangladesh e veda infrangersi il suo sogno di frequentare le scuole occidentali e trovare il riscatto sociale da lui tanto desiderato. Ma c'è chi non si vuole arrendere. Attorno a lui si è creato un fronte partito dalle sue maestre e dai genitori dei suoi compagni di scuola che in questi giorni ha coinvolto anche tanti lettori di questo Giornale che si sono fatti avanti per aiutare in qualche modo il bambino. Aiutarlo a restare con gli zii, o anche a tornare in Italia, dove in fondo ha ancora i genitori.

Un movimento che ha trovato sponda anche nelle istituzioni. L’unità complessa “Infanzia, adolescenza, famiglia” dell’Ulss 4, diretta dal dottor Mauro Ciccarese, fin da subito ha espresso l’intenzione di approfondire il caso in tutte le sedi opportune. In effetti ieri l’azienda sanitaria ha convocato gli zii di Abu per discutere con loro la vicenda e d’altra parte ha attivato il servizio legale per chiarire il quadro normativo in modo da individuare la soluzione migliore negli interessi del bambino. Anche perché come hanno sottolineato subito, Abu ha pur sempre dei genitori che vivono qui.

Il bambino, sottolineano gli zii, dice di voler vivere in Bangladesh con i nonni se non può stare con loro. Ma le istituzioni nel guardare al suo bene non possono però fermarsi a questo.

Elia Cucovaz

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