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FRANCESCO CAROFIGLIO

«La bambina mai nata
è la voce narrante»

Francesco Carofiglio, in libreria con Voglio vivere una volta sola
Francesco Carofiglio, in libreria con Voglio vivere una volta sola
Francesco Carofiglio, in libreria con Voglio vivere una volta sola
Francesco Carofiglio, in libreria con Voglio vivere una volta sola

È una bambina mai nata, Violette, la protagonista e voce narrante del nuovo romanzo di Francesco Carofiglio, l'architetto-scrittore fratello minore del Gianrico magistrato-scrittore, Voglio vivere una volta sola (Piemme, 178 pagine, 13,90 euro). Mai nata non perché abortita: mai venuta al mondo, mai concepita. Eppure fortemente voluta da tutti. Per lei era stato scelto un nome, ipotizzato un carattere, fantasticato la somiglianza. Ma prima è venuto un maschio, poi un altro. Così è rimasta figlia e sorella immaginata e immaginaria, per ogni membro della famiglia.

Violette dice: «Non sono mai nata». Come fa a parlare, se non è mai nata?
È l'alchimia della storia. L'io narrante dichiara di non essere al mondo, ma poi c'è. Si muove su un crinale tra realtà e immaginazione. Si tratta di un gioco che si stabilisce con il lettore, tutto narrato da una presenza-assenza che è il cuore della storia. Si crea un cortocircuito per cui non si sa neppure se gli altri personaggi esistano veramente. Ci sono in quanto immaginati da Violette. È tutto un riflesso di specchi.

Da dove ha tratto ispirazione per questo suo personaggio?
Anni fa ero a Parigi, in Place des Vosges. Ho notato una ragazzina, che somiglia a quella raffigurata sulla copertina del libro, con lo sguardo penetrante e le efelidi. Indossava un vestito celeste, con le bretelle, vicino a lei il bagaglio. Sembrava aspettare assorta. Vedeva qualcosa che io non vedevo. Quel giorno Violette è venuta a trovarmi.

Ci racconta la famiglia di Violette?
C'è un padre in carriera, affettuoso ma un po' assente, due figli maschi che crescono, Jean e Augustin. Un cane, Javert, chiamato come il personaggio dei Miserabili, che il padre sta rileggendo. Una famiglia d'estrazione colta. La madre, Emma, è molto intelligente e bellissima, avrebbe potuto fare l'attrice. Infatti è fermata da un regista che potrebbe essere Fellini. Da qui, tra l'altro, si evince che siamo a Roma negli anni Sessanta, come poi ci trasferiremo a Parigi nei Settanta. E infine in un avamposto sul mare a Plouzané, in Bretagna, dove il cerchio si chiude. Mi sono immaginato la madre man mano che la bambina la vedeva. E d'altro canto è il desiderio della donna che dà corpo e voce alla figlia, tanto desiderata e mai arrivata.

In tutti i nuclei familiari c'è una Violette?
Pochi giorni fa ero al mare, in vacanza, chiacchieravo con un bambino che mi raccontava di suo fratello. Poi parlando con i suoi genitori ho scoperto che si trattava di un fratellino immaginario. Mi sono venuti i brividi. Ho pensato: ma come, questa storia non l'ho scritta io?! Molte volte i bambini si creano un compagno di giochi irreale. Una voce che faccia loro compagnia.

Come sono i rapporti dei due fratelli, Jean e Augustin, con Violette?
Confidenziali, unilaterali se si vuole, perché nel romanzo non sono descritti i sentimenti dei due maschi. Violette è esigente verso di loro, quando la deludono diventa spietata. Trascorrono insieme l'adolescenza poi, come spesso succede, vanno ognuno per la loro strada.

Nel romanzo tutti i personaggi invecchiano. Violette, bambina fin da subito pensante, resta sempre uguale. Crescerà anche lei?
Non lo so. Tutto questo va al di là del romanzo. Posso solo sperare, come è successo altre volte, che Violette torni a trovarmi. Mi prenda per mano. Mi porti verso un altro sogno.

Violette dice: «Smetterò di esistere quando l'ultimo di loro smetterà di pensarmi». Ma aggiunge: «E chi lo dice che quando uno non c'è più smette di pensarti?»
Violette esiste perché è fortemente desiderata; così si crea la magia. Poco le importa di come andranno dopo le cose. Esprime una verità: non vivono in noi le persone care scomparse solo perché ne ricordiamo gesti, parole, espressioni? Non vediamo in altri o in noi stessi qualche cosa di un parente mancato da tempo, che continua a essere dentro di noi?

Perché questo romanzo tutto di immaginazioni? Voleva esplorare un terreno diverso?
Per alcuni aspetti sì, perché non mi ero mai liberato così dal fardello della realtà per inoltrarmi nel magico. In un certo senso c'è, invece, un aspetto di continuità con gli altri libri perché continuo a esplorare il mondo dell'infanzia e dell'adolescenza. Non si tratta della sindrome di Peter Pan, ma di aver maturato la consapevolezza di un mondo che posso ancora frequentare.

Violette è felice?
Lo è come lo sono coloro che hanno la percezione dell'attimo. In alcuni momenti sì, altri no. È molto critica con l'ambiente che la circonda, quasi severa con i suoi familiari, anche se li ama. Si attende sempre qualcosa. Sa che il bello della vita è che puoi essere sorpreso. Quando meno te l'aspetti puoi trovarti nel momento giusto, con il cielo giusto.

Violette dice anche «se non vuoi essere triste, devi raccontare». È ciò che fa lei?
Per uno scrittore raccontare è un grande privilegio che ti consente di trasferire passaggi anche tristi della tua vita in quella meravigliosa stanza dei giochi che è la scrittura. Che ti permette di ridere anche se sei addolorato. Ma si racconta perché c'è un'urgenza non per guarire dalla tristezza.

Quali sono allora le condizioni per diventare scrittore? Lasciar vagare i pensieri, come ha fatto lei a Place des Vosges?
Forse il segreto è cercare qualcosa che dia gratificazione. Allora la tristezza è altrove. Creare semplicemente, come farebbe un falegname con un mobile, o un orefice. Scrivere come un giornalista, correre come un atleta.

Alessandra Milanese

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